Immagini di Sant’Agata e della festa in suo onore abbondano nei testi dei più noti scrittori catanesi, laici professi e anticlericali ostinati alcuni, ma ‘tutti devoti tutti’ alla patrona, vergine e martire, della loro città.
Canta Sant’Agata ‘immortale e summu vantu di li nostri liti’ il poeta Domenico Tempio che visse e morì nella città etnea il 4 febbraio del 1820, proprio quando sfilavano per le vie del suo quartiere, la Civita, le candelore in onore della santa.
Ricorrendo la festa di Sant’Agata, il 5 Febbraio 1859, il giovanissimo Mario Rapisardi scrive la sua prima poesia: è un’ode alla patrona della sua città, che il futuro estensore del poema Lucifero, celebra come ‘sovrana beltà, pura, celeste’ , che tutti ‘imploran nell’ore afflitte e meste’ e per la quale Catania in ciel si cangerà’.
Alla fine dell’800, invece, Verga nella novella La coda del diavolo, descrive una singolare usanza che caratterizzava i giorni dei festeggiamenti agatini. ‘A Catania’ – narra Verga – ‘la quaresima vien senza carnevale; ma in compenso c’è la festa di Sant’Agata, gran veglione di cui tutta la città è il teatro, nel quale le signore, hanno il diritto di mascherarsi, sotto il pretesto d’intrigare amici e conoscenti, e d’andar attorno, dove vogliono, come vogliono, con chi vogliono, senza che il marito abbia diritto di metterci la punta del naso. Questo si chiama il diritto di ‘ntuppatedda, diritto il quale, checché ne dicano i cronisti, dovette esserci lasciato dai Saraceni, a giudicarne dal gran valore che ha per la donna dell’harem’. E così la donna catanese ben mascherata, ‘la ‘ntuppatedda’, dalle quattro alle otto di sera è padrona di sé (cosa che da noi ha un certo valore), delle strade, dei ritrovi’ ed è, continua Verga, libera di scherzare, stuzzicare, ingannare, sedurre tutti gli uomini che vuole e che incontra.
E se Verga a accenna solo alla curiosa maniera di vivere la festa da parte delle donne catanese, il suo amico e sodale verista, Federico De Roberto, nella sua guida illustrata di Catania, edita da Corrado Ricci nel 1907, scrive minuziosamente di tutte le fasi e i momenti dello svolgimento della festa, di tutto quanto avviene dalla mattina del giorno 3 febbraio, quando ‘ tutto il clero regolare e secolare, tutte le confraternite e congreghe pie muovono dalla chiesa della Calcarella, dove i fedeli venerano la fornace dalla quale la martire uscì illesa, fino alla cattedrale, recando processionalmente l’offerta dei ceri’, alla sera dello stesso giorno quando ‘schiere di devoti accompagnate da altrettante musiche scendono dai varii quartieri della città in piazza del Duomo; dove, dopo un’orgia di fuochi artificiali, cantano le laudi della Santa, e donde muovono poi a ripetere i cantici dinanzi alle case dei più ragguardevoli cittadini’, sino alle processioni del giorno seguente e della giornata conclusiva del 5 febbraio, descritte, con appassionata partecipazione, nel loro percorso e nella caratteristica sequenza delle candelore che accompagnano il fercolo della santa. E d’altronde ne I vicerè, il romanzo che aveva pubblicato nel 1894, De Roberto intreccia più volte la storia ottocentesca della famiglia aristocratica degli Uzeda con la festa per la patrona, anche con quella che si celebra in estate. Consalvo protagonista del romanzo, ricorda in un passo che ‘durante la festa di Sant’Agata, in agosto, andava a spasso tutti i giorni, assisteva alla processione del carro, all’oratorio cantato in piazza degli Studi, e alle gare dei cavalli che si facevano lungo la via del Corso, tra due siepi vive di curiosi, sui quali spesso i cavalli si gettavano, sparando calci ed ammaccando costole’ e sempre per bocca di Consalvo, De Roberto rievoca aspetti del ‘cerimoniale spagnolesco di quella festa: il Senato della città, nella berlina di gala grande quanto una casa, preceduta da mazzieri e gonfalonieri e catapani che sonavano i tamburi, andava a prendere l’Intendente, il quale doveva farsi trovare sul portone: al senatore più giovane toccava mettere il piede sulla predella, in atto di scendere; ma allora il rappresentante del governo doveva avanzarsi con le braccia distese, per impedirgli di toccar terra. Erano le prerogative della città. Il Senato aveva avuto lunghe contese con le altre autorità circa il posto da occupare nella cattedrale, durante le grandi funzioni: per evitare liti ulteriori, s’era tracciata per terra una riga di marmo che nessuno poteva varcare’.
Ancora nel primo decennio del ‘900, Nino Martoglio apre la sua Centona con versi che celebrano la festa di Sant’Agata e nel 192, nel suo testo teatrale Voculanzicula, ancora la festa fa da sfondo, con la sua processione, alla storia narrata, e un devoto in tunica bianca e berretto nero è uno dei protagonisti della vicenda.
Quadri di Sant’Agata invece sono disseminati nella narrativa di metà novecento di Vitaliano Brancati: l’autore catanese, cantore del gallismo, presenta ne Il bell’Antonio, a metà romanzo, la madre del protagonista nervosamente alle prese con un grande dipinto di sant’Agata che tenta di spolverare andando avanti e indietro per il corridoio ‘curvandosi ogni due passi per baciare il vetro che custodiva l’immagine sacra’, mentre il marito, nel suo studio, apprende dal consuocero che il figlio, Antonio appunto, sposato da tre mesi non ha ancora consumato il matrimonio. Nella novella Un matrimonio disapprovato, sempre di Brancati, una Sant’Agata, immortalata e incorniciata in un quadretto appeso ad una parete , fa da muta testimone alla disperazione del padre del professore Rapisardi – protagonista del racconto – quando viene a sapere della scelta del figlio di voler sposare una ‘donna di strada’ rinunciando alle profferte della più blasonata cugina; poi, nella casa modesta e a pianterreno dove va a vivere il professore con la sua donna del popolo, che sposa nella disapprovazione generale del suo ambiente sociale, un altro quadro di Sant’Agata ascolta le dolorose richieste del professore quando la moglie sta per morire, per eccesso di generosità, per avere donato tanto sangue al fratello gravemente ammalato.