Comincia all’alba la giornata più lunga dei devoti di San Sebastiano: lasciano le loro case quando fuori è ancora buio per recarsi in basilica e assistere all’apertura della cappella. Hanno lo sguardo impaziente, irrequieto, pronto, in attesa che le porte d’argento si schiudano e il Santo si sveli. Intanto, fuori, la gente comincia a confluire in piazza Lionardo Vigo già di buon ora: vuole essere davanti per vedere “a nisciuta di san mmastianu”. I ragazzini vivaci si arrampicano sulla balaustra, si aggrappano tenacemente alle statue del sagrato, litigano per accaparrarsi il posto migliore, e attendono trepidanti che il portone si apra e che dal fondo buio della basilica appaia l’enorme e lucente sagoma del fercolo trainato dai devoti. Alle undici del 20 gennaio, puntuale come ogni anno, san Sebastiano oltrepassa l’uscio della chiesa e si concede all’abbraccio dei fedeli che lo vollero compatrono di Acireale. Un grido si alza altissimo a sovrastare la terrificante scarica di botti che accoglie il Santo all’uscita: «viva san mmastianu».
Suona la campanella agitata vigorosamente dal “mastro di festa”: ci si prepara alla partenza. L’aria si ferma, tace ogni voce, cadono le parole. Una catena di fedeli delimita l’area di manovra. La gente è attaccata, sospesa, l’una all’altra, e attende che il grido «viva san mmastianu» si alzi ancora una volta. Ed eccolo! Sulle basole di pietra lavica rotolano le pesanti ruote del fercolo, corrono i devoti vocianti, in un’ardita e repentina manovra che velocemente porta la “vara” fino alla piazza del Duomo. San Sebastiano inizia il suo giro trionfale per la città, seguito da una folla di fedeli. È lontano il tempo in cui il santo di Narbo Martius proteggeva dalla peste l’antica Aquilia, oltre quattro secoli fa, ma non è cambiato lo spirito che sostiene la fervente devozione popolare. Il culto di san Sebastiano, diffusissimo in tutta la Sicilia, affonda infatti le proprie radici nelle credenze che rappresentavano la peste come frecce mefitiche scagliate sulla terra da Apollo. E quindi chi meglio di Sebastiano, un santo sopravvissuto al martirio delle frecce, poteva proteggere il popolo dal terribile morbo?
Passate le pestilenze il centurione bimartire divenne depositario delle suppliche dei malati, dei disoccupati, delle madri e dei padri che alzavano i loro bambini verso “u rizzareddu”. La tovaglia bianca appesa al fercolo offerta dagli scampati alla peste, il maglione marrone e rosso donato da un miracolato, sono alcuni dei segni visibili delle Grazie elargite dal “Venerabile”.
Una marea di fazzoletti bianchi allacciati in testa segue il Santo lungo il giro lasciando dietro di sé l’eco di una perenne litania: «vardatilu ch’è beddu u rizzareddu», «dicemulu cu tuttu u cori: viva san mmastianu». La coda dei devoti si snoda lungo le vie barocche senza mai cedere alla stanchezza, rinvigorendo di tanto in tanto il passo con l’ennesima invocazione di lode al Martire fino a fermarsi in piazza Agostino Pennisi, davanti alla vecchia stazione ferroviaria, dove si attende il passaggio del treno che da Catania porta in Continente. È questo uno dei momenti più sentiti: si rievoca infatti la partenza verso il fronte dei soldati acesi, che votatisi a San Sebastiano scamparono miracolosamente alla morte durante la Grande Guerra. Il fischio acuto del treno che fugge lontano saluta il Santo e l’emozione si scioglie in un nuovo scampanio che annuncia la ripartenza. Ecco la vara che riprende il percorso: svolta a destra, poi a sinistra, sale, scende, una fuiuta poi una fermata davanti al sagrato di una chiesa o nel luogo di un miracolo: qualche minuto di preghiera, una supplica, i fuochi d’artificio e via, un nuovo scampanio e si riprende la strada fino alla prossima fermata, alla prossima chiesa, al prossimo miracolo, accogliendo le prossime suppliche, così fino a tarda ora.
È ormai mezzanotte inoltrata quando il fercolo arriva in prossimità della basilica di san Sebastiano. Ci si prepara all’ultimo tintinnio della campanella del “mastro di festa” che lancerà i portatori verso la grande corsa da trasuta. La vara d’argento spinta per molte ore dai devoti ha raggiunto ogni quartiere della città ed ha raccolto insieme ai tanti ceri le tante speranze degli acesi.
Suona per l’ultima volta la campanella, ecco la vara correre a gran velocità sotto lo sguardo dei fedeli e raggiungere l’ingresso della chiesa. L’ultimo saluto “o rizzareddu” e “san mmastianu” scompare oltre il portale che si chiude dietro di lui.