Andrea Rapisarda: un intellettuale antifascista

Tra gli intellettuali siciliani di tenace concetto del secolo scorso, vi è da annoverare Andrea Rapisarda, giornalista e narratore arguto, i cui scritti vale senz’altro la pena che vengano rievocati e meglio conosciuti. Andrea Rapisarda nasce a Santa Venerina, in provincia di Catania, nel 1910. Dopo la laurea in Filosofia, negli anni del fascismo, frequenta la Scuola di giornalismo a Roma e si forma alla professione, mantenendosi però indipendente e anzi critico nei confronti del regime sino a diventare un antifascista militante. Per questo verrà rinchiuso nel carcere di Regina Coeli e scamperà quasi per caso all’eccidio delle Fosse Ardeatine. Finita la guerra e ritornata l’Italia alla democrazia, Rapisarda inizia la sua carriera giornalistica, scrivendo per vari periodici progressisti: in particolare, collabora con Il Mondo di Pannunzio e nel 1953 tiene una rubrica su Nuova Repubblica (il settimanale diretto da Tristano Codignola, che ha, tra gli altri, per collaboratori Ferruccio Parri e Pietro Calamandrei), dal titolo Lettere provinciali dove, come nota Linda Risso in ‘Una esperienza azionista dell’età repubblicana. Unità Popolare e Nuova Repubblica (in Liberalsocialisti.org) ‘trovavano spazio’, acutamente e ironicamente trattati ‘i temi della società, del costume, delle donne, della vita nei paesi di provincia’: in particolare di quella del suo paese e della vicina e più grande cittadina di Acireale, insomma della sua Sicilia, che, dalla Capitale, Rapisarda continuava ad osservare e che raccontava, elaborando anche i ricordi della sua infanzia e rendendoli storie per i lettori attenti e politicamente impegnati non solo di Nuova Repubblica, ma anche di riviste come Comunità (che era stata fondata da Adriano Olivetti) e Tempo presente (che era diretta da Ignazio Silone e Nicola Chiaromonte), dove scriveva di storie siciliane vere, ma trasformate in letterarie e piacevoli narrazioni. Ne citiamo qualcuna: ne ‘I dispetti al governo’(comparsa su Tempo presente del Marzo ’61), Rapisarda racconta come i suoi compaesani si adoperarono, per evitare la chiamata alle armi all’entrata in guerra dell’Italia nella prima guerra mondiale, con atti di autolesionismo, con la simulazione di malattie o con altre trovate più o meno geniali e pericolose; parla quindi dei tanti disertori che fecero ritorno in paese lasciando armi e bagagli militari al fronte, facendo inglorioso ma salvifico ritorno al paesello e racconta di quello, uno solo, che invece morì da eroe e gli fu dedicata un’iscrizione su un muro di casa sua a ricordo di un sacrificio che nei commenti dei concittadini sapeva invece di vana e balorda impresa, subito dimenticata all’annuncio della fine della guerra e alla festa che ne seguì in paese con le luminarie, le bancarelle, la folla contenta e vociante e i discorsi dal palco, a cui nessuno dava conto, delle autorità locali.
In ‘Il fascio’ (pubblicato sul volume 9 di Nord e Sud del ’62), viene rievocata la nascita della prima sezione del nascente movimento fascista a Santa Venerina, dove sino ad allora la vita associata s’era per lungo tempo svolta all’interno due circoli cittadini che facevano capo rispettivamente ‘al partito del barone e a quello dell’avvocato che si pagavano le spese delle elezioni con i propri soldi, si facevano la propaganda con i biglietti da dieci lire e vuotavano le cantine per festeggiare non tanto la propria vittoria quanto la sconfitta del partito avversario’.
Il modo in cui s’apprese ad Acireale dell’omicidio di Matteoti (‘la notizia non fece grande impressione’) Rapisarda lo narra in Matteotti in Sicilia (su Comunità del gennaio 1963): il passaggio alla dittatura mussoliniana e i gravi fatti che ne seguirono vengono visti attraverso le discussioni e i commenti dei personaggi – proprietari terrieri ed esponenti della piccola borghesia delle professioni – che animano la vita del circolo cittadino, preoccupati di ‘raccontarsi barzellette e tenersi informati sul prezzo del vino’ e che di Mussolini ricordano la beffa compiuta ai suoi danni durante la sua visita ad Acireale, quando qualcuno gli rubò la bombetta che aveva lasciata appesa all’ingresso del palazzo municipale e di Matteotti deploravano l’audacia e la sventatezza di aver ‘preso di petto qualcuno che era più grosso di lui’.
Luoghi assolati e remoti, quelli di cui parla Rapisarda, isole nella più grande isola che è la Sicilia, fatte di solitudini (‘il medico di Giarre era diventato matto a forza di stare tra i libri’), di ozio e di violenza (che scaturisce spesso dalla difesa dell’onore come in Una storia siciliana, apparsa su Tempo Presente nel giugno del ’62), di rivolte fulminee e sanguinarie dettate da una disperazione che altrettanto repentinamente si fa rassegnazione e accettazione dell’ordine antico e immutabile delle cose e ancora di rancori e odi ma anche di slanci d’affetto e di tenerezze inaudite.
Sono vite, storie e paesaggi di un tratto di Sicilia ‘alle pendici dell’Etna’, quelle che Rapisarda rievocò in tanti suoi scritti su varie riviste politiche-letterarie, intanto che andava svolgendo il suo lavoro di cronista al Messaggero, dove lavorò a lungo, ricevendo, nella sua carriera, apprezzamenti da tanti e finanche l’omaggio di alcuni versi a lui dedicati da Mario Pomilio. Rapisarda muore a Roma nel 1992, e per sua volontà viene sepolto nel cimitero del suo paesino siciliano.

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