Nùbia, piccola frazione del Comune di Paceco. Una strada, poche case, quelle dei salinari. Bisogna spostarsi verso il mare, per ammirare uno spettacolo che, ignorando qualche palazzaccio all’orizzonte sulla costa trapanese, è immutato da tempo immemore: le saline.
Sin dai tempi dei Fenici, infatti, una vasta zona salmastra e condizioni climatiche favorevoli, hanno suggerito l’impianto di vasche per l’estrazione del sale marino. I Fenici lo esportavano in tutto il bacino del Mediterraneo.
La storia del sale, sin dai tempi più remoti è stata quella di rapporti tra culture e paesi diversi, di mercanti, di carovane, di lunghi viaggi per scambiare o vendere un prodotto la cui importanza non era, collegata solo all’aspetto economico ma anche religioso e mitologico.
Il porto di Trapani ha avuto per lunghi secoli una certa supremazia grazie al commercio del sale.
Verso la metà dell’800, vi erano 40 saline attive nel tratto di costa che prosegue fino a Marsala, con una produzione annua di circa 200.000 tonnellate di sale esportato in tutta Europa. La richiesta di mercato era elevata considerato l’utilizzo del prodotto per la conservazione di cibi deperibili e per la loro lavorazione.
Divenne monopolio di stato, venduto a lungo nelle tabaccherie e soggetto a dazio. Si trattava di un prodotto preziosissimo, e come tale fu anche oggetto di contrabbando. Ma l’arrivo delle due guerre mondiali, l’avvento di nuove tecnologie per la conservazione dei cibi, decretarono un decadimento delle saline.
Nel 1995 l’Assessorato Regionale Territorio e Ambiente sottopone a tutela un vasto territorio di circa 1000 ettari, istituendo la Riserva Naturale Orientata Saline di Trapani e Paceco, la cui gestione è affidata al WWF. Tutte le saline ricadenti in questo territorio sono gestite da privati.
A Nubia, nei pressi della costa, l’occhio spazia senza incontrare ostacoli, il territorio è perfettamente pianeggiante, ancora qualche uliveto, poi, improvviso, si scorge il Monte Erice su cui si adagia comodamente l’omonimo incantevole paese. Il mare sembra ritagliato a quadrettoni irregolari che brillano al sole e resti di numerosi mulini si ergono ovunque, malconci, quasi a volere sfidare il tempo nell’intento di raccontare ancora a qualcuno il loro passato glorioso. Caratterizzano il paesaggio in un insieme suggestivo. Testimonianze di duro lavoro, oggi svolto con sistemi più comodi. I mulini avevano una funzione diversa a seconda della loro postazione. Quelli più antichi, a stella o “mulini olandesi”, avevano la cupoletta direzionabile in base al soffiare del vento. Dotati di 6 pale trapezoidali, all’occorrenza rivestite di tela, sfruttando l’energia eolica, azionavano macine in pietra per tritare il sale marino o la “spira”, detta anche “vite di Archimede”, per il sollevamento dell’acqua da una vasca all’altra. Il loro impiego non poteva prescindere dalla figura, del “mulinaro”, depositario dei gesti e dei rituali necessari al buon funzionamento e alla manutenzione del mulino. Con esperienza e abilità “purtava u mulino a vento”, orientava cioè le pale riuscendo a percepire anche improvvisi cambiamenti direzionali del vento, in modo da evitare danneggiamenti.
I “mulini americani”, più recenti avevano palette metalliche più piccole ed erano autodirezionali in funzione del vento.
In un’antica casa salaria a Nubia, è stato allestito “il museo del sale”, ma prima ancora di entrarvi, intorno si può ascoltare il silenzio, la voce del vento, persino i pesci guizzare.
In autunno e in primavera, gruppi di fenicotteri rosa regalano uno spettacolo che bisogna proprio concedersi. Provengono dall’Africa settentrionale, e hanno un lungo viaggio da fare fino alla regione francese di Camargue. Qui sostano in un habitat loro congeniale, specie dal punto di vista nutritivo. In questa zona salmastra, infatti è presente un tipo di alga rosa di cui si nutrono dei crostacei che sono a loro volta cibo per i fenicotteri e da cui proviene la loro tipica colorazione rosa.
“Ali di porpora” è il significato del loro nome e racchiude tutta la loro magnifica eleganza.
Molte altre specie, intorno si nutrono e sembrano crogiolarsi in una magnifica e assolata giornata d’autunno lasciandosi ammirare nel loro volteggiare festoso.
Ai margini delle saline grossi cumuli di sale bianco, in parte ricoperti da tegole, svettano nell’azzurro del cielo, uno dietro l’altro. Sono i “munzidduna”, da 200 a 400 tonnellate di sale. In questo periodo autunnale il ciclo di produzione si è concluso e queste montagnole di sale ne sono il risultato. Starà ad essiccare e ripulirsi ancora qualche mese, poi a marzo si raccoglierà, si macinerà e sarà pronto per la commercializzazione. Quando il calore del sole sarà quello giusto, la piovosità finita del tutto e il vento sarà dolce e costante, si ricomincerà il ciclo produttivo. L’acqua del mare verrà convogliata inizialmente in una grande vasca molto profonda, detta “fridda”, da qui, (in passato attraverso la vite di Archimede montata nei mulini, oggi mediante pompe elettriche o a gasolio), verrà spostata in una vasca meno profonda detta “vasu cultivu” dove la temperatura è più calda e i residui della precedente coltivazione fungono da lievito aumentando il grado di salinità. Ci vorranno ancora passaggi in almeno altre tre vasche prima che avvenga la formazione di strati di sale pronti per la raccolta, in estate, nei mesi di luglio e agosto. Oggi dei nastri trasportatori consentono un comodo trasferimento fino a terra dove il sale viene ammucchiato, ma un tempo questa faticosa operazione si svolgeva a mano. I salinari portavano sulle spalle ceste di canna, “cartedde”, di 25-30 kg o si aiutavano con i muli. Un lavoro faticoso, allietato da voci di bambini, gli acquaroli, che avevano il compito di dissetare gli uomini al lavoro e nello stesso tempo prepararsi loro stessi a diventare futuri salinari. Spingevano un carro-botte pieno d’acqua ed era sollievo nelle calde giornate d’estate. I salinari praticavano l’acquacoltura per provvedere al sostentamento nei mesi invernali quando la produzione del sale era ferma. Così in primavera e in estate pescavano gli avannotti e li introducevano nelle vasche più profonde. Li ripescavano, orate e spigole, al raggiungimento del giusto peso.
Ancora oggi queste attività proseguono e questi luoghi mantengono inalterato il loro fascino.
Basta proseguire fino alle Isole dello Stagnone per godere appieno di un incantevole tramonto autunnale.