Mario Praz era fortemente persuaso che ‘il massimo piacere del viaggiare si raggiunge quando allo spostamento nello spazio si unisce lo spostamento nel tempo’.
Così, da viaggiatore curioso e colto ne traeva la seguente pertinente conseguenza: ‘In Sicilia, il retroscena storico è profondissimo, e la varietà del paesaggio supplisce alla relativa ristrettezza spaziale, sicché si potrebbe facilmente sostenere che quello di Sicilia è il viaggio perfetto’.
Con questo convincimento partì nel 1957 per un giro nell’isola realizzando su quanto aveva visitato un reportage per il quotidiano Il Tempo che lo pubblicò nel numero del 19 luglio, con il titolo Sicilia, circo e cimitero (riproposto, in seguito, nei volumi Bellezza e bizzarria, Il Saggiatore, 1960 e Il mondo che ho visto, Adelphi, 1982).
Sosteneva Praz che, vivendo a Roma, doveva essere assuefatto alle antichità e ai resti archeologici che le testimoniavano; d’altronde ne aveva viste di cose antiche belle e interessanti in giro per L’Europa, specialmente in Gran Bretagna. Ma quello che si aspettava di vedere, in Sicilia, in particolare a Piazza Armerina, si prospettava di eccezionale fascino e valore: infatti, da qualche anno si faceva un gran parlare (anche grazie agli studi dell’archeologo Biagio Pace) della scoperta, nel cuore della Sicilia, di una serie di edifici del basso impero, singolari e preziosi ‘non solo per la quantità dei pavimenti figurati a mosaico, una trentina, ma anche per il carattere delle figurazioni, prima fra tutte capace di infiammare la fantasia dei moderni, la serie di fanciulle in bikini’. Quindi, già solo una visita a Piazza Armerina e ai mosaici della sua villa romana, per l’anglista diventato famoso per il saggio La morte, la carne e il diavolo nella letteratura romantica, valeva bene un viaggio in terra sicula. Anche se, arrivare nella cittadina ennese non fu proprio semplice, come Praz racconta: ‘per quanto oggi, con l’automobile, si possa giungere senza molta difficoltà dappertutto, Piazza Armerina resta pur sempre un luogo fuori mano, e il viaggio in torpedone da Taormina, cinque ore di andata e cinque di ritorno, bastò a stabilire tale rispetto di distanza da dare alla nostra gita il carattere d’una vera e propria escursione. Ci avevano assicurato che i mosaici sarebbero stati in gran parte scoperti proprio per noi, e se questa purtroppo risultò una assicurazione fallace, al segno che il poeta W.H.Auden, che era con noi, ebbe a dire: ‘non sono mai andato così lontano per vedere così poco’, tuttavia la traversata della Sicilia, l’amenità del sito delle rovine, e quei pochi mosaici che potemmo vedere ci fecero sembrare bene spesa la faticosa giornata’. Una giornata che Praz inizia con l’ammirata visione, dal balcone dell’albergo taorminese, dell’Etna ‘emergente solenne e candida sopra la verde campagna e il mare’; poi sul pullmann percorre e attraversa la Piana di Catania con i suoi tanti paesi che vi risiedono, come Palagonia ‘paese scosceso come quelli che si vedono nei presepi, posato su un tappeto di agrumeti carichi di frutti d’oro come gli alberi dell’Angelico o quelli dipinti da un bimbo, che non finirebbe mai di stiparli di pomi’. Più avanti vi è Caltagirone con la ‘sue case grigie le une sull’altre’ addossate e la sua ‘erta scalinata ’.
Dalla città della terracotta, il pullmann prosegue la sua corsa e dopo un breve tragitto Mario Praz annota ‘eccoci infine in vista di Piazza Armerina coronata dalla cupola della sua cattedrale, una veduta memorabile che impressionò molto i pittori stranieri del Settecento, e che anche quel giorno, con la sua campagna verdolina e il cielo celeste pallido con qualche nuvola grigia, faceva già quadro dinanzi ai nostri occhi. Più tardi per viuzze anguste, irte di balconcini, ingombre di panni stesi d’ogni colore, con qua e là il crudo spettacolo di animali macellati appesi agli uncini dei beccai, dovevamo salire fino a quell’alto duomo, e ammirare il palazzo Trigona della Floresta dalle cinque finestre color d’ocra scandite in ritmo solenne sulla facciata e soprattutto quel portale che s’apriva su un ricamo di penduli rami sul fondo celeste del cielo’. Infine soddisfa pienamente le attese la perlustrazione della famosa Villa del Casale: alla meraviglia e all’incredulità di trovarsi di fronte ad una delle più rilevanti costruzioni del mondo romano – come se ‘un palazzo di fate d’un tratto si parasse dinanzi a un pellegrino in una contrada sperduta’ – subentra l’interesse e l’attenzione per la trama dei mosaici: in uno vi è raffigurata ‘una gran partita di caccia’ alquanto movimentata e popolata da un gran numero di cavalieri, animali, imperatori: ‘la scena di corpi che balzano, si divincolano, accorrono, si tendono, si svolge pietrificata nel perfetto silenzio d’un gran mosaico’. Ancora, sovrabbondano, nei mosaici, pose aggressive d’animali che combattono contro giganti, eroi e dei, in una prova di forza e di coraggio, sullo sfondo di figurazioni dello zodiaco e accanto a dolci ragazze in bikini che, però, non attenuano il clima ‘saturo di terrestrità’, di ‘occhi spalancati di ebbrezza fisica’, dai quali emana ‘uno spirito bestiale e cruento, lo spirito della romanità nel suo declino’. L’impressione che suscitano i mosaici in Praz è forte e gli appaiono come la rappresentazione di un ‘immenso circo fissato con un’arte violenta’.
L’indomani, dopo l’intensa ed estasiante giornata, Praz ‘con la mente ancora intronata dalla violenta esaltazione della vita fisica intravista a Piazza Armerina’ nei mosaici della vetusta villa, parte per Savoca, il piccolo paese situato a metà del tragitto da Taormina a Messina, a vedere l’opposto del ‘circo’ armerino, l’ esatto contrario: uno strano e particolare spettacolo della morte, ospitato nella cripta della Chiesa dei Cappuccini. Una serie di cadaveri mummificati, posti entro nicchie lungo le pareti di un grande salone, è l’immagine che coglie, prima del resto, lo sguardo di Praz, che poi, avvicinandosi, scruta i dettagli dei corpi, i colori dei visi, la consistenza delle osse, lo stato dei vestiti: il tutto ingiallito, illividito e smunto dalla putrescente azione del tempo.
Di tutti i corpi lì conservati ‘non due sono nella stessa posa, non due che presentino la stessa deformazione nella morte, sicché questa fila di cadaveri atteggiati offre il più spaventoso spettacolo di danza macabra che sia dato da vedere: come se le rappresentazioni macabre di Paolo Vincenzo Borromini, nella chiesa di Santa Grata a Bergamo, si fossero staccati dalla tela per diventare realtà’. Notevole la differenza, conclude Praz, tra la civiltà che ispirò tra il seicento e l’ottocento nobili e alti ecclesiastici e li spinse a farsi conservare imbalsamati da quella che invece permeò lo spirito vitale e solare degli abitanti della Villa di Piazza Armerina.
Il raffinato studioso d’arte e letteratura coglieva in Sicilia, nei contrasti decisi di questa isola, l’esaltazione della vita e l’agghindata messa in mostra della morte, il coesistere della solarità e del dolore, della luce e del lutto che, tempo dopo, Gesualdo Bufalino avrebbe indicato come categorie e condizioni della storia e dell’anima dei siciliani.