Tra le numerose eruzioni che funestarono tutto il territorio etneo nel XIX secolo, quella del 17 novembre del 1843 sul fianco occidentale risultò in assoluto la più tremenda e sanguinosa di tutte, non tanto in termini distruttivi del territorio quanto per l’alto numero di vittime che la caratterizzarono. Il fatto risulta oltremodo grave se si pensa che durante le secolari fasi eruttive del nostro vulcano, le vittime conclamate sono state pochissime e quasi tutte da addebitare all’imprudenza di gente che, per somma curiosità, si è avvicinata più del dovuto ai crateri eruttivi o ai vari fronti di eruzioni in corso, rimanendo vittima del fumo gassoso o delle scorie esplose. Proprio quest’ultimo evento ebbe a verificarsi durante la fase eruttiva scoppiata il 17 novembre 1843. Nel pomeriggio di quel giorno, preceduta da una serie continua di scosse sismiche, si aprì sul versante nord-ovest del vulcano, a quota 2.400 metri, nella contrada “Quadarazzi” una voragine di 60 canne (più di 120 m. circa) di lunghezza, per 5 canne (più di 10 metri) di larghezza con una serie di bocche effusive a bottoniera, dalle quali scaturirono subito fumo e cenere seguiti poco dopo da un flusso di lava fluida e veloce che si diresse subito verso il basso, passando tra i vicini M.Egitto e M.Rovere, con un fronte che si ingrandiva a vista d’occhio. Procedendo verso ovest la lava si divise in tre rivoli: il primo si diresse verso il bosco di Maletto, quello centrale prese la direzione del vicino centro di Bronte, mentre l’altro seguendo le asperità del terreno, cominciò ad incanalarsi verso il bosco di Adernò. Tuttavia nel prosieguo dell’eruzione accadde che le correnti laterali, non più alimentate, si arrestarono ben presto, mentre rimase attivo il fronte centrale. Giorno 18 la corrente lavica ben alimentata alla bocca, giunse vicino a M.Paparia seppellendo nel suo procedere un vasto fondo dei P.P. Benedettini di Messina nella contrada Dagala Chiusa. Intanto la popolazione del vicino Bronte iniziò ad allarmarsi e richiese subito la presenza dell’intendente Don Giuseppe Parisi. Questi, avvertito del fatto, si recò subito nel centro etneo e diede disposizioni per la tutela dell’ordine pubblico e per l’eventuale sgombero di case che si trovavano sulla direttiva del fuoco avanzante. La lava intanto deviò il suo corso in prossimità delle collinetta detta “la Vittoria” e piegò ancora più a sud occupando antiche sciare ormai dissodate e coltivate a cereali, ortaggi e frutti vari ed avviandosi verso la sottostante valle del Simeto. La notizia dell’eruzione aveva già richiamato tutti i proprietari dei terreni in pericolo e soprattutto una gran folla di curiosi giunti da ogni dove a piedi, con carrozze, muli o calessi. Molti di loro temevano di non poter ritornare a casa presto se la lava avesse occupato la strada consolare Bronte-Adernò: infatti c’era il rischio di dover fare dei giri lunghissimi attraverso Randazzo ed anche Giarre. Il 23 novembre la lava, dopo aver occupato il fondo Fitemi in contrada Tripitò, tagliava la suddetta consolare e si portava così a solo due miglia ( 1 miglio sic.= 1851,85 m.) dalla vicina cittadina di Bronte e a poca distanza dal sottostante fiume Simeto. Il 25 novembre si ebbe la tragedia. La colata bruciando piccoli poderi di ulivi, viti, mandorli e pistacchi, strappati a più antiche lave con il duro lavoro giornaliero, era giunta nella scoscesa detta di “S.Lucia”. Come già detto molti proprietari di fondi minacciati erano convenuti nella zona per cercare di portar via tutto il possibile dalle case coloniche minacciate. Così carri pieni portavano altrove tegole, porte, masserizie e suppellettili varie. Nei dintorni squadre di operai e contadini tagliavano alberi e persino le viti, piantate anni prima con immenso lavoro. Gruppi di donne e fanciulli guidati da cappellani e curati alzavano al cielo fervide preghiere poiché la direzione della colata non faceva presagire niente di buono. Infatti se fosse giunta al Simeto ne sarebbe seguita la rovina di tutte quelle terre coltivate. Oltre ai proprietari di terre e ai contadini che lavoravano alacremente, come si diceva prima, erano giunti frotte di curiosi che attendevano l’arrivo della lava. Nessuno delle autorità e dei presenti aveva fatto caso ad una sorgente (o una cisterna, o un ampio stagno, le fonti non sono molto chiare in merito) posta sulla direttiva della corrente lavica. Appena la massa rovente venne a contatto con l’acqua si ebbe una tremenda esplosione. Brandelli di lava incandescente, pietre infuocate, lapilli e cenere calda furono lanciati tutt’intorno nel raggio di qualche centinaio di metri ed andarono a colpire la gran massa di curiosi ivi presente. Dal fronte lavico si sollevò una densa colonna di vapore acqueo che oscurò tutto il territorio circostante. Le scene che seguirono furono apocalittiche: feriti che urlavano di dolore, corpi inerti, gente che vagava attonita chiedendo aiuto ovunque. Una carneficina! Dopo qualche minuto, appena gli incolumi si resero conto, all’incirca, dell’accaduto, diedero inizio ad estemporanee operazioni di soccorso. C’era da dare aiuto soprattutto ai numerosi feriti, quasi tutti ustionati e a quelli che per vari motivi non davano più segni di vita. Da Bronte giunsero altri soccorsi e cominciò la triste composizione delle salme che ascesero al numero di 30 (per altri 36). Nel paese furono trasportati 25 feriti, 10 dei quali morirono già in serata, per le gravi lesioni riportate. Non si contarono quelli che avevano ricevuto piccole bruciature provocate da brandelli di lava scagliata dall’improvvisa esplosione.
Nel paese non si era avvertito il fragore dell’esplosione, bensì ci si rese conto dell’accaduto per l’immensa colonna di fumo che si era innalzata nella direzione della lava. In quel momento tutti pensarono con terrore ad una nuova bocca vulcanica, la quale avrebbe potuto provocare solo gravi danni, perchè apertasi ad un sito molto basso e quindi pericolosa per gli insediamenti umani, come la storia delle tante eruzioni insegnava. Per fortuna le autorità municipali, aiutate dai curati, riuscirono a mantenere un certo ordine all’interno della cittadina, calmatasi un poco dopo che si era conosciuta l’origine della colonna di vapore. Tuttavia alle tremende e pietose notizie provenienti dal fronte lavico, una cappa di gelo calò sulla cittadina: nessuno poteva dimenticare che la maggior parte delle povere vittime prima abitava ed operava ivi. Intanto la corrente lavica, seppur in via di rallentamento, incuteva ancora terrore ai proprietari delle vicine fabbriche cosiddette della “Cartiera” e del “Paratore”, quest’ultimo, all’epoca, un grande caseggiato dove si trovava una macchina per preparare ruvidi tessuti di lana. I curiosi non mancavano di certo ma nessuno osava più avvicinarsi alla lava, tale e tanta era la paura che l’incidente avvenuto aveva provocato.
Il 27 novembre la corrente lavica si arrestò del tutto. Parallelamente aumentò l’attività gassosa ed esplosiva del cratere centrale. La lava aveva coperto un territorio di 6 miglia circa di lunghezza per 1/2 di larghezza, con un’altezza variante dai 25 ai 50 palmi. Finiva così un’eruzione, non molto estesa, né di lunga durata, ma strana e soprattutto tragica nella lunga storia del vulcano. Cominciarono subito tra i vari scienziati del tempo, sia siciliani (Gemmellaro) che continentali, gli studi per riuscire ad identificare le cause di quella anomala esplosione. Tempo dopo, in seguito a studi sulla colata e sul territorio ricoperto, si giunse alla conclusione scientifica che tutto era accaduto a causa dell’incontro tra magma incandescente ed acqua. Le autorità borboniche avrebbero fatto tesoro di quella tragica esperienza, come si ebbe a verificare poi, durante la lunga eruzione che nel 1852 avrebbe atterrito le popolazioni della “Zafarana” nel versante sud-orientale. Infatti l’intendente del tempo, per prima cosa “con mastri e trummi d’acqua”, come ebbe poi a scrivere il letterato del tempo Leonardo Vigo, provvide a far svuotare le cisterne e pozzi vari posti lungo la direttiva della corrente lavica. Si evitarono così esplosioni pericolose come quella che rese famosa quella piccola eruzione del 1843, diversamente destinata ad essere una delle tante anonime succedutesi nei fianchi del vulcano nel corso dei secoli.