Nel 1935 la città riadattò l’antica denominazione che per tanti secoli aveva designato come Ispicae Fundus (poi corrotto fonologicamente in Spaccaforno) l’abitato che si trovava nella parte più bassa della Cava in una posizione da “nido d’aquila”, naturalmente riparata e protetta da un formidabile “fortilitium”. Sull’origine del nome esistono molte ipotesi ma nessuna certezza documentata: da un’antica città denominata Ispa per l’omonimo fiume o più credibilmente dal latino Speca (grotta) poi corretto in Ispica. La presenza abitativa nella “Cava” parte dall’età del bronzo, attraversa tutte le fasi storiche, dai Siculi ai Greci, ai Romani, ai Bizantini, Arabi, Normanni, ecc., con un continuo processo di riadattamento abitativo di cui l’archeologia moderna ci ha in qualche modo restituito il percorso. Le nuove esigenze abitative e il rovinoso terremoto del 1693 sono all’origine dell’Ispica attuale che si è sviluppata limitrofa al vecchio sito, ma in posizione diversa con una struttura urbanistica di taglio tipicamente settecentesco, con una maglia stradale a scacchiera che coesiste con un impianto di tipo medievale con tracciati irregolari. “Quest’ultima area è adiacente ad una rupe dove sono i ruderi di una fortezza, nucleo principale della città che prima del terremoto del 1693 si sviluppava anche nella parte finale della Cava d’Ispica. La fortezza vide una vita particolarmente intensa in età rinascimentale. Dopo il terremoto se alcuni quartieri furono ricostruiti intorno alle chiese rimaste in piedi (seppur danneggiate) di S.Antonio, del Carmine, dei Minori Osservanti, gli altri furono tracciati ex novo sul colle Calandra con vie larghe e dritte, secondo il tracciato di due ingegneri venuti da Palermo al seguito di don Blasco Maria Statella” (P. Nifosi, Guida di Ispica – 1989). L’avvento dei Normanni feudalizzò Spaccaforno che fu concessa da Ruggero II, come compenso per i servizi ricevuti, a Berengario di Monte Rubro (Monterosso), il quale”…alla sua morte, rinuncia ai suoi diritti in favore della regina Eleonora. Dopo alcuni anni di signoria di Guglielmo d’Aragona, fratello del re Pietro II, Spaccaforno viene lasciata al suo maggiordomo Manfredi Lanza. Passò quindi a Francesco Prefolio e dopo ai Chiaramonte, fino al 1392, quando dal nuovo re di Sicilia, Martino, la città di Spaccaforno e tutta la contea di Modica fu ceduta a Bernardo Cabrera. Ma quando costui per debiti contratti con l’Erario non riuscì a pagare, fu costretto a vendere Spaccaforno ad Antonio Caruso, patrizio di Noto, Maestro Razionale del Regno, con tutti i diritti e i privilegi. Da quel momento Spaccaforno si staccò dalla Contea di Modica seguendo altre sorti. Da Antonio Caruso la città passò al figlio Vincenzo; da costui, che non ebbe eredi, pervenne al fratello Antonello e quindi a sua figlia Isabella Caruso e Moncada, che nel 1493 sposò il conte Francesco Maria Statella, Gran Siniscalco del Regno. La loro dimora abituale fu la fortezza di Spaccaforno, che ampliarono ed abbellirono facendone una dimora signorile e maestosa. Ma dopo il terremoto del 1693 la città fu ricostruita nella vicina spianata, con un impianto urbanistico moderno e arioso, con vie larghe e diritte, con ampie piazze e bellissime chiese. Lentamente le abitazioni della cava furono abbandonate, ma mai in modo definitivo; molte di esse, specie lungo “la Barriera”, furono utilizzate come officine, come frantoi per le olive o palmenti, e ancora oggi alcune di esse vengono adibite a depositi, garages o cantine” (G. Iacono, Guida alla provincia di Ragusa, 1985).
Un itinerario per la città
Ispica moderna sorge limitrofa al vecchio sito che per molti secoli è stato denominato Spaccaforno. Dopo il rovinoso terremoto del 1693 la parte dell’abitato più vicina al parco Forza della Cava fu abbandonata e si creò un processo di urbanizzazione intorno alle chiese meno danneggiate creando un centro urbano disegnato secondo le linee dominanti dell’architettura settecentesca caratterizzato da una maglia stradale a scacchiera che si presenta funzionale e moderna. Un itinerario per la città può assumere come punto di partenza l’ampia piazza Regina Margherita dominata nella parte alta dalla chiesa Madre dedicata a San Bartolomeo. La facciata, a due ordini, è contraddistinta da una doppia scalinata ed è movimentata da due coppie di lesene nella parte centrale che continuano anche nell’ordine superiore. Essa è resa armoniosa dai tre portali che designano le tre navate della struttura interna, dagli oculi, dalle finestre e dall’arco di coronamento. Lo stile coniuga elementi tardo-barocchi con quelli neoclassici ottocenteschi. Sopra il portale centrale è sito lo stemma degli Statella diventato poi quello della città. L’interno caratterizzato da intonaci bianchi e dall’ampia volumetria è abbastanza semplice e nudo. Degni di nota un crocifisso dipinto su croce lignea in stile tardo bizantino e un quadro settecentesco di S.Francesco di Paola. Dalla piazza si raggiunge la via XX settembre per visitare il tempio più importante e ricco d’arte della città: la Colleggiata di S.Maria Maggiore. Costruita durante tutto il Settecento con una facciata ottocentesca, essa forma con il loggiato semicircolare della piazza antistante, opera dell’architetto netino Vincenzo Sinatra, un insieme armonioso che in proporzione imita il portico di S.Pietro del Bernini. La facciata costruita verso la metà del ‘700 e rifatta nel XIXsec., è molto semplice a due ordini: quello inferiore ha tre portali, divisi da lesene coronate da festoni fioriti; quello superiore è legato al primo da piccole volte di raccordo che lo rendono ancora più slanciato verso il cielo. Tutto il sagrato è circondato da una robusta cancellata in ferro battuto, quasi ad isolare ancor di più il tempio dall’ambiente esterno. L’interno a pianta basilicale, reso luminosissimo dalla luce che entra dal finestrone centrale e da quelli laterali, racchiude un ciclo di affreschi compiuti fra il 1763 e il 1765, che sono il capolavoro di Olivio Sozzi, uno dei più geniali pittori siciliani del suo tempo, allievo di Sebastiano Conca di Gaeta. Notevole anche all’altare maggiore la tela di Vito D’Anna (1768) Madonna della Cava e santi, tra le ultime opere del maestro e nella sagrestia un dipinto di Giuseppe Crestadoro, Mosè riceve le tavole della legge (1783). Molto venerato è il simulacro del Cristo alla Colonna, posto nella cappella sinistra del transetto: è un gruppo composto da un Cristo flagellato legato alla colonna curvato ad angolo retto in avanti che, nonostante le manomissioni dovute a numerosi restauri, pare sia di origine tardo medievale, cui sono stati aggiunti nell’Ottocento le statue dei due carnefici in stile più grossolano. Usciti dalla chiesa attraverso via Duca degli Abruzzi si giunge ad un piazzale da dove si può ammirare uno dei più importanti esempi del liberty siciliano: il palazzo Bruno di Belmonte oggi Municipio, commissionato da questa ricca famiglia all’architetto palermitano Ernesto Basile a cui si devono i migliori risultati del liberty siciliano. La costruzione di questo edificio quasi unico nella zona per l’insieme delle decorazioni interne ed esterne, si fa risalire al 1910; è costituito da un blocco a due piani dinamicamente articolato mediante torri angolari, logge, modanature e decorazioni policrome All’interno lo scalone di marmo e la decorazione delle inferriate, opera dei fabbri Giuseppe e Lino Donzella, sono tra gli esempi più pregiati dell’artigianato artistico del periodo.
Tornando in piazza Regina Margherita, attraverso Corso Garibaldi, si raggiunge la chiesa dell’Annunziata che si trova in fondo ad un ampio viale alberato e fa da quinta scenografica della piazza antistante circondata da case gentilizie otto-novecentesche. Anch’essa è caratterizzata da un interno settecentesco con un impianto planimetrico basilicale a tre navate e un esterno più tardo disegnato dall’architetto Paolo Labisi. Anche questa chiesa ha un interno decorato da un interessante ciclo di stucchi attribuiti allo stuccatore palermitano Giuseppe Gianforma, realizzati verso la metà del Settecento. Tra le opere d’arte si segnalano: l’Annunciazione (olio su tela, sec. XVIII, altare centrale), l’Adorazione dei Magi (olio su tela, sec. XVIII),,, S.Maria dell’Itria (olio su tela), S.Vito (scultura), la cassa reliquiaria in argento; in sagrestia si trovano una tavola tardo rinascimentale raffigurante l’Annunciazione, la tela di S.Andrea Avellino (sec. XVII). Proseguendo fino a piazza del Carmine ci si imbatte nel complesso della chiesa della Madonna del Carmelo e dell’ex convento del Carmine. Il convento, la cui fondazione risale al 1534, è opera settecentesca, mentre la chiesa (originariamente dedicata a Santa Caterina) è stata realizzata in diversi periodi storici (secoli XVII-XIX). Il prospetto della chiesa, composta da un ordine unico rinserrato da paraste, comprende artigianali bassorilievi di stile rinascimentale databili tra la seconda metà del sec. XVI e la prima metà del sec. XVII (S. Alberto di Gerusalemme, S.Angelo, S.Alberto degli Arabi). Nell’interno si conservano un interessante pulpito ligneo ( secc. XVI-XVII), il mausoleo del ven. Salvatore Stella (sec. XVIII) e la scultura lignea della Madonna del Carmine (sec. XVIII), “patrona Civitatis”. Il convento, una struttura architettonica a due ordini molto sobria, presenta una vivace nota scultorea nei mascheroni delle mensole del balcone. Il cortile è racchiuso da un porticato (incompleto) a robusti pilastri. Nella parte bassa della città in posizione panoramica si staglia l’insieme del convento e della chiesa di S. Maria del Gesù. Demolito dal terremoto del 1693 fu ricostruito in forme semplici, aderendo allo stile pauperistico dell’Ordine. L’interno della chiesa è decorato da eleganti stucchi bianchi e da un pregevole altare marmoreo (sec.XVIII).
Alterne fortune hanno caratterizzato la millenaria vita di un angolo suggestivo degli Iblei, quella Cava d’Ispica testimone costante di insediamenti, dalla “facies” castellucciana ai giorni nostri.
Il gran canyon di Cava d’Ispica
Tra le cave che solcano numerose i monti Iblei, una delle più suggestive è sicuramente la Cava d’Ispica, un canyon lungo circa 13 chilometri scavato dal torrente Ispica, o Pernamazzoni, come viene chiamato nel suo corso superiore o ancora Busaitone nel suo corso inferiore. La Cava d’Ispica reca in sé le testimonianze di una frequentazione costante dell’uomo dai primi insediamenti Sicani sino al più recente utilizzo di alcune delle sue grotte per la custodia dei greggi. Nel corso dei secoli la Cava d’Ispica ha conosciuto momenti di grande splendore in particolare tra i secoli IV e VIII d.C., in relazione al movimento monastico che dall’Oriente si diffuse per tutto il Mediterraneo. In seguito al terremoto del 1693 Cava d’Ispica è stata quasi del tutto abbandonata. Un itinerario intelligente per la visita alla Cava inizia in prossimità di Ispica, presso l’incrocio Pachino-Ispica-Rosolini. Guardando verso Ispica, lungo le pareti rocciose dello sperone sul quale sorge il convento dei Frati Minori, è possibile ammirare le prime testimonianze degli antichi insediamenti, costituite da abitazioni rupestri e tombe scavate nella roccia. Inoltrandosi per la valle, seguendo le indicazioni per Cava d’Ispica, lungo le pareti rocciose, sulla destra, ulteriori tracce di un’antica presenza umana come quelle dei santuarietti rupestri di San Teodoro, S. Nicolò, S. Rosalia, S. Gaetano, della necropoli sicula di Scalaricotta con le classiche tombe a grotticella, mentre sul lato sinistro è possibile ammirare i ruderi delle chiese di S. Agata, S. Bartolomeo, S. Anna e San Sebastiano. Un po’ ovunque i resti scavati nella roccia delle abitazioni rupestri degli antichi frequentatori della Cava. In questa prima parte del percorso si giunge infine alla rupe della “Forza”, un tempo fortezza di importanza strategica che proteggeva l’ingresso della cava che la contorna. Il Parco della “Forza”, la cui estensione è di circa 3 ettari, è stato sistemato per garantirne una gradevole fruizione. La rupe ha ospitato, sino al disastroso terremoto del 1693, il cuore della città di Ispica. Gli scavi qui condotti hanno portato alla luce tracce di insediamenti umani databili tra il XIX e il XV secolo a.C. (facies castellucciana). La visita al Parco della “Forza”, ci consente di osservare, tra gli elementi di maggior rilievo, i ruderi del Palazzo Marchionale, eretto in epoca bizantina, come sembrano indicare i frammenti ceramici portati alla luce dagli scavi. Esso appartenne sino al 1520 ai Caruso, successivamente sino al 1693 agli Statella. Del Palazzo sono evidenti i resti di un cortile, di cui è visibile, in buono stato di conservazione, l’acciottolato, dietro, con pianta a L, i resti della costruzione di cui rimangono diversi ambienti pavimentati e opere di difesa e sul lato destro i vani di servizio. Proseguendo il nostro itinerario per il Parco, ci si imbatte, in prossimità del Palazzo Marchionale, nei ruderi della chiesa dell’Annunziata sul cui pavimento è possibile osservare numerose sepolture scavate nella viva roccia. Interessante è poi il “Centoscale”, una lunga scala sotterranea di 280 gradini, che giunge sino al letto del fiume sul fondo della Cava. Impossibile da datare per la presenza nel sito di tracce continue della presenza umana sin dal periodo arcaico greco, la struttura aveva probabilmente lo scopo di consentire agli abitanti della fortezza l’approvvigionamento idrico al riparo da eventuali aggressioni durante i periodi di assedio. Nel Parco numerosi sono i resti di abitazioni e di locali destinati a servizi come la “scuderia”, con mangiatoia e sistema di drenaggio dell’acqua scavati nella roccia, la “spezieria”, e locali, anch’essi scavati nella roccia, adibiti a frantoio e conceria. Ai piedi della Rupe della “Forza”, l’antica chiesa di S. Maria della Cava, con i resti di affreschi, la grotta dell’eremita S. Ilarione e, due chilometri più a sud, i,resti della catacomba di S. Marco, un vasto complesso cimiteriale con centinaia di loculi, databile intorno al IV -V secolo d.C.. Al termine della visita al Parco della “Forza”, a causa della difficoltà di accesso alla Cava dovuta all’assenza di altri ingressi agibili in zona, ci si può spostare in auto percorrendo la strada Ispica Modica. A circa 10 km ad un bivio si svolta a sinistra seguendo le indicazioni per Cava d’Ispica sin quando si giunge in prossimita di una chiesa di nuova costruzione. Proseguendo a sinistra da questo punto per quasi 2 km e poi per una stradina ancora a sinistra per un altro km, si giunge sullo sperone del “Castello” un complesso di abitazioni rupestri a più piani di età tardo antica e medievale abitato sino agli anni ’50. Ritornati sulla strada principale, precedentemente abbandonata in corrispondenza della chiesa, e seguendo le indicazioni per Cava d’Ispica, si giunge ad un altro sito nella parte nord della Cava la visita del quale, come per il Parco della “Forza”, è resa particolarmente agevole dalla presenza di un parcheggio per le auto, di un ufficio informazioni e di comodi sentieri che tracciano un interessante itinerario. Subito sulla destra, all’ingresso del sito, si può visitare la grande catacomba paleocristiana di “Larderia”, databile tra il IV e il V secolo d.C.. La catacomba conta oltre 300 tombe disperse lungo tre corridoi. Il corridoio centrale (o decumano centrale) conduce al “cubicolo del baldacchino”, una monumentale sepoltura sormontata da un baldacchino con pilastri regolari e costituita da un vano quadrato sulla sinistra del corridoio. Proseguendo la visita del sito ci si imbatte ancora in testimonianze di epoche diverse della presenza umana. Ritornati sulla strada, e percorrendola verso Rosolini, dopo poche centinaia di metri, si imbocca una carrozzabile sulla destra e a sinistra poco dopo si possono ammirare i resti della chiesa di S. Pancrati a pianta longitudinale tricora, databile tra il V e il VI secolo. Nelle vicinanze della chiesa una interessante grotta detta “u rutt’e santi” per i resti di pitture bizantine, in pessimo stato, purtroppo. In zona anche la grotta di San Nicola, una piccola chiesetta rupestre di età bizantina. La descrizione delle numerose testimonianze della presenza umana nella Cava d’Ispica non rende merito delle sue suggestioni paesaggistico-naturalistiche pure straordinarie. L’ambiente della Cava non è dissimile da quello delle altre cave che numerose solcano gli Iblei e sul cui fondo, vera linfa vitale, scorrono spesso fiumi e torrenti che con le loro acque consentono la crescita di una vegetazione rigogliosa e l’affermarsi di una fauna variegata. La flora è fatta di piante arboree come il pioppo, il leccio, il platano, il carrubo selvatico, il pero selvatico; di oleandri, di palme nane, e poi ancora rovi, il timo, il sambuco, il mirto, la rosa di macchia, il cappero, l’edera, il ciclamino e la ginestra spinosa.
Un tratto di costa magico, tra dune ed un mare limpido, capace di colpire la fantasia degli antichi navigatori che ne hanno fatto uno degli approdi di Ulisse nel suo lungo peregrinare verso casa: questo è il litorale che va da S.M. del Focallo ai pantani Bruno e Longarini.
L’approdo di Ulisse
Il Fazello, nel suo continuo circumnavigare a piedi l’isola di Sicilia (Descrizione dell’isola di Sicilia, a cura di G. Di Marzo, Palermo 1877), ci ha lasciato le più suggestive descrizioni del litorale che va da Santa Maria del Focallo sino ai Pantani Bruno e Longarini. La bellezza del luogo ha stimolato la fantasia di molti che, in prossimità della Marza, individuarono uno degli innumerevoli approdi di Ulisse (da cui il nome di Porto Odisseo attribuitogli dai romani) nel suo disperato tentativo di far rientro in patria. Lì doveva sorgere una città, Porto Odisseo per i Romani, Marsa at Bawalis, da cui Marza (porto appunto) per i Saraceni. Più volte la città fu distrutta e ricostruita ed oggi estremamente esigue sono le testimonianze dello splendore di un tempo sostituite da un monotono susseguirsi di ville e villini che contrastano non poco con la purezza delle spiagge immortalate dal Fazello. E non sfuggì lo splendore, un tempo incontaminato, del luogo al Camilliani che così descrisse la spiaggia: “Si chiama delle Palle, perché il mare in questo luogo porta gran quantità di erba, il quale per il suo flusso e reflusso la riduce in forma di balle di varie proporzioni, e tutte ritengon la forma sferica, che a farle artificiose non si potrian far migliori”. Si riferisce, il Camilliani, ad un fenomeno, ancora osservabile, che riguarda l’effetto delle onde e delle correnti sulla Posidonia, una pianta superiore adattatasi alla vita subacquea e che numerosa popola i fondali della zona contribuendo ad un ecosistema marino brulicante di vita. Ma il Camilliani visita quei luoghi perché egli, esperto di fortificazioni, ne individua l’alto valore strategico proponendo l’edificazione di una torre presso Santa Maria del Focallo dove descrive le rovine di un tempio e di una chiesetta. Non si sa se la torre fu poi eretta, in ogni caso di essa non sono rimaste tracce. Il Camilliani propose poi che si costruissero altre torri (mai edificate) lungo tutta la costa. Si hanno notizie, ma non sembrano esisterne le tracce, del Castellaccio di Marza, nei pressi del pantano Longarini, un’antica fortezza rovinata in mare già nella metà del secolo XVI. La costa è caratterizzata da un susseguirsi di lunghissime spiagge protette dai marosi da promontori e faraglioni. Per un lungo tratto di spiaggia, a ridosso delle dune, una fitta macchia mediterranea offre rifugio dal sole estivo. Gli aspetti naturalistici del litorale sono stati messi a dura prova dalla spietata cementificazione della costa e dalle opere di bonifica di epoca fascista che ne hanno stravolto, almeno in parte, gli elementi caratteristici. Conserva un grande valore paesaggistico-naturalistico l’Isola dei Porri, uno scoglio che affiora dalle acque a poche centinaia di metri dalla costa della Marza. Il nome dell’isolotto deriva dai numerosi agli selvatici che fioriscono in primavera. E’ presente anche il Limonium ramosissimum siculum. Sullo scoglio è facile osservare, soprattutto in primavera, anche numerosi uccelli acquatici che qui si danno convegno. Tra essi aironi e gabbiani. Vero paradiso per gli uccelli sono invece, spingendosi verso est, i pantani Bruno e Longarini, splendidi specchi d’acqua, da cui si diparte una complicata rete di canali, separati dal mare soltanto dalle dune della spiaggia. Qui, è possibile osservare gallinelle d’acqua, beccaccini, la pernice di mare, la pittima, il gambecchio frullino, il totano moro, il fraticello ed un tempo (non è certo se ancora stazioni qui) il rarissimo (per l’Europa, visto che è invece comunissimo tra le paludi e i laghi dell’Africa tropicale) pellicano. Questo uccello era un assiduo frequentatore di questa zona umida come testimoniano i molti esemplari uccisi e poi impagliati in zona. Anche l’osservazione della flora acquista presso questi specchi d’acqua salmastra un suo fascino per la presenza di tamerici, giunchi, salicornia e nelle zone meno salate, carici e caneggiole. Se per un qualche miracolo fosse possibile sospendere la caccia ed evitare, come spesso purtroppo avviene, che i pantani divengano luoghi in cui riversare rifiuti, questa zona potrebbe riacquistare il suo straordinario fascino originale.
Una cittadina moderna nata attorno ad un vecchio “caricatore” e la sua torre di guardia. Un’alternativa a misura duomo ai centri di normale recezione turistica, con spiaggie di sabbia finissima, una cucina tipica fatta di pesce fresco, “scacce” e dolci tradizionali.
Pozzallo l’evoluzione del “Caricatore”
Nei testi più antichi il nome di Pozzallo diventava di volta in volta “Alpussallus”, “Lapussallus”, “Puzzallu”, “Puozzalli”, etc.. La storia di Pozzallo comincia con Manfredi di Chiaramonte, quando viene iniziata la costruzione del “Caricatore”, un insieme di magazzini atti a contenere la merce che dal porto avrebbe raggiunto i lidi più lontani. Il “Caricatore”, punto di sfogo sul mare della Contea di Modica, appartenne dalla fine del XIV secolo, al Conte Bernardo di Cabrera, che per concessione reale, aveva il diritto di esportare da esso dodicimila salme di frumento in franchigia. Ancora oggi è possibile osservare alcuni dei magazzini che formavano l’antico “Caricatore” sia come ruderi che come stabili trasformati e riattati nel corso dei secoli ed attualmente ancora utilizzati. A difesa del Caricatore dalle incursioni dei pirati, su autorizzazione di Alfonso V d’Aragona, il Conte Bernardo Cabrera fece erigere la Torre che da egli prende il nome. Della Torre, che si affaccia sul mare, il Camilliani scrisse: «tanto vicina al lito, che le onde, per le fortune le bagnano le fondamenta», descrizione che lascia intuire, non corrispondendo a ciò che oggi è possibile vedere, un lento bradisismo. Camilliani nella sua opera Descrizione dell’isola di Sicilia (a cura di G. Di Marzo, Palermo 1877), riconosce l’importanza strategica del sito proponendo nei pressi di Pozzallo l’elevazione di altre torri tuttavia mai edificate. L’imponenza della Torre Cabrera fu immortalata dal Fazello che la definì “ingens et magnifica” (Dell’historia di Sicilia, Palermo 1558). La Torre ha subito nel corso dei secoli numerose modifiche sia di natura strategico-militare, come i rinforzi per sorreggere le artiglierie ed un terrapieno verso il mare voluti da Carlo V, sia di vera e propria ricostruzione come quelle volute dagli Enriquez Cabrera dopo il disastroso terremoto del 1693. Altri interventi di ristrutturazione furono resi necessari dallo scoppio della polveriera avvenuto intorno ai primi dell’ottocento. Presidio militare, la Torre era gestita, come ci tramanda lo Spannocchi, da un cappellano al comando di 4 uomini ed ancora lo Smith (Memoir descriptive of the Resources, Inhabitants, and Hidrography of Sicily and its Islands, London 1824) scrive: «Pozzallo is defended by a fort, consisting of a battery, tower, and barbacan, calculated for a garrison of a fifty or sixty men». Oggi la Torre si presenta come una costruzione austera e omogenea il cui rigore è scarsamente interrotto da elementi costruttivi. La sua altezza attuale di circa 20 metri è inferiore all’originale in cui erano presenti le ormai perdute merlature. Inoltre la sua struttura si mostra oggi più tozza di come doveva apparire in passato, sia per la minore altezza, sia perché un tempo essa sorgeva isolata, essendo circondata da un fossato, mentre oggi risulta soffocata da moderni edifici. All’interno della Torre si accedeva per mezzo di un ponte levatoio, mentre verso il mare è ancora possibile osservare i resti del potente bastione deputato al sostegno delle artiglierie. Se la Torre rappresenta il monumento maggiormente rappresentativo di Pozzallo, essa è anche legata, nel suo utilizzo, alla subordinazione del vecchio Caricatore alla Contea di Modica. Il declino della Torre, difatti, è indicativo della fine della feudalità e dell’avvenuta emancipazione di Pozzallo dalla Contea di Modica sancita definitivamente nel 1829 da un decreto con il quale Francesco I di Borbone, re delle Due Sicilie, rende Pozzallo Comune autonomo. L’ultimo utilizzo della Torre come postazione strategico-militare è avvenuto durante la Il Guerra Mondiale come baluardo a protezione delle basi militari italiane e tedesche contro le incursioni aeree. Con la fine del controllo operato dalla Contea di Modica, Pozzallo riceve un notevole impulso al proprio sviluppo sociale e soprattutto economico, tangibile nell’aspetto attuale del paese, con i suoi circa 17.000 abitanti e con la sua struttura urbana profondamente modificata rispetto al vecchio “Caricatore”, che la fa apparire come una cittadina moderna e vivace. Piazza Rimembranza rappresenta il cuore della città. Al suo centro sorge il monumento ai Caduti della I Guerra Mondiale circondato da enormi palme. La piazza si continua ad ovest con Corso V. Veneto, via principale e centro commerciale del paese oltre che luogo di incontro per la classica passeggiata serale dei pozzallesi. In Piazza Rimembranza si possono ammirare verso est oltre alla massiccia figura della Torre Cabrera anche il Palazzo Musso, costruito ad inizio del secolo, come denuncia inequivocabilmente il suo liberty, oggi sede della Biblioteca Comunale. A Nord Palazzo Giunta che insieme a Palazzo Pandolfi contribuisce a circoscrivere il perimetro della Piazza. Nei pressi della Piazza il centro storico con via Manzoni, un tempo via Vicci, ricorda le prime espressioni di espansione urbana dell’antico “Caricatore”, caratterizzate da case basse disperse in un dedalo di viuzze. Ad est di Piazza Rimembranza inizia il quartiere dello “Scaro” con il Lungomare Pietre Nere da cui è possibile vedere da altra angolazione la Torre Cabrera. Sempre allo Scaro, sorge Villa Tedeschi, costruita verso la fine del secolo scorso in stile liberty. La villa, già dimora dei Marchesi Rizzone Tedeschi, consta di un corpo centrale a due piani con all’interno scale e stanze adorne di stucchi ed affreschi, e da un cortile nel quale sorge una cappella gentilizia dedicata a Santa Rosalia. La Villa, nel 1979, è stata acquistata dal Comune, che ne ha utilizzato il cortile per alcune manifestazioni culturali. Oggi è chiusa per interventi di restauro. Risalendo per Corso V. Veneto da Piazza Rimembranza, sulla sinistra, si erge il Municipio con alle spalle la scogliera del Caricatore. Il Palazzo, dopo un cerimonia svoltasi nel 1979, è stato intitolato ad uno degli uomini più illustri di Pozzallo, quel Giorgio La Pira già membro dell’Assemblea Costituente ed ex sindaco di Firenze. In fondo ad una strada, dinanzi al Municipio, sorge con la sua semplice facciata la Chiesa Madre. Al fianco di Palazzo “La Pira” vi è la Villa Comunale con la sua lussureggiante vegetazione fatta di piante e fiori esotici accompagnati da una flora tipicamente mediterranea. All’interno della Villa la vasca con i pesci, la splendida passeggiata sulla scogliera del Caricatore e un busto bronzeo opera dello scultore pozzallese Francesco Gugliotta e raffigurante il patriota garibaldino Raffaele Scala. Il Corso V. Veneto termina con la piazzetta dell’Unità d’Italia che si continua con il Lungomare Raganzino nel quale si erge un monumento a San Giovanni Battista, patrono del Paese e protettore dei marinai. Nella zona Raganzino, in via Roma si trova la chiesa di San Giovanni Battista, un edificio di recente costruzione. Il Lungomare Raganzino prende contatto con la spiaggia omonima dominata dal castello “De Martino” un edificio lasciato incompleto sul finire degli anni trenta. Oltre la spiaggia ha inizio il grande porto turistico-commerciale che offre scalo ad un discreto traffico marittimo tra cui i traghetti e gli aliscafi diretti a Malta. Pozzallo rappresenta l’alternativa a “misura d’uomo” ai centri di normale recezione turistica della zona come Marina di Modica, Marina di Ragusa, Sampieri… Ma pur non essendo del tutto inserita nei circuiti turistici, nei mesi estivi, moltiplica la sua popolazione a causa del rientro delle migliaia di emigranti che con flussi periodici, coincidenti con i periodi di maggior crisi del Paese, hanno lasciato la propria casa per raggiungere i luoghi più lontani in cerca di miglior fortune. Questo turismo di rientro in patria insieme a quello propriamente detto, trova, in paese l’accoglienza di spiagge di sabbia finissima e della cucina tipica fatta di pesce freschissimo, delle “scacce” e dei dolci della pasticceria modicana. E poi Pozzallo si trova a poca distanza da Ragusa, con l’incantevole Ibla, da Modica con il suo Barocco, a non più di dieci km da Ispica con la suggestiva “Cava” ed è collegata a Noto e Siracusa, che dista poco più di 60 km, dalla SS 115. Il Paese è circondato da spiagge: quelle di Raganzino e Maganugo a ponente e quella dei “tre scivoli” a levante. Nel periodo estivo Pozzallo offre due interessanti appuntamenti: la festa del Patrono, San Giovanni Battista, il 23 e 24 giugno, con la caratteristica traversata in mare della statua del Santo su una barca con tanto di banda a bordo, seguita da altre imbarcazioni e, ad agosto, la “Sagra del pesce” che attira migliaia di presenze in paese per la tradizionale frittura di pesce che avviene nella enorme “patella”. Queste due manifestazioni, l’una religiosa, l’altra laica, rendono perfettamente conto dello strettissimo legame che intercorre tra Pozzallo, la sua gente ed il mare fonte delle principali attività economiche del Paese per secoli.