“Costumi e usanze dei contadini di Sicilia” di Salvatore Salomone Marino, pubblicato a Palermo nel 1897, è una delle opere della maturità del noto studioso di folklore e di storia siciliana. Nel clima culturale del Positivismo (non a caso l’autore fu primario di medicina) con uno stile narrativo di poco anticipatore del Verismo, il Salomone Marino si propone, così come scrive nel “preambolo” introduttivo, di “raccogliere e conservare le ultime immagini di un popolo che fino a ieri ebbe una spiccata individualità… fotografando il contadino nella sua vita esteriore ed interiore, dal lato buono come dal non buono… nelle gioie e ne’ dolori suoi, nelle passioni, nelle faticose occupazioni giornaliere, negli atti della domestica vita”. Vi proponiamo di leggere il capitoletto “Buon Capo d’anno” che oltre ad offrirci l’occasione di rivolgere un augurio ai nostri lettori, ci dà la possibilità di riflettere su un modello culturale che pur sembrando ormai lontanissimo da noi, resta parte integrante del vissuto storico dei nostri padri. Uscirei dal mio intento se mi fermassi a descriver le feste e le solennità, e civili e religiose, alle quali il contadino piglia più o men larga parte; ma poiché bisogna che lo conosciamo per quanto ci è possibile in tutt’i’ momenti della vita sua, in campagna come in città, nelle gioie come ne’ dolori, nel lavoro come nel riposo, e con le virtù e i difetti e le credenze e le superstizioni sue, così noi lo seguiremo pur nelle solennità e feste cittadine, segnando però solo quel tanto che alla classe contadinesca si appartiene, e non più.
E per procedere con un po’ d’ordine, comincio con la solenne giornata del Capo d’anno.
Buon Capo d’anno!
E’ il saluto che tutti si scambiano il primo di gennaio nelle alte, nelle medie e nelle infime classi, nelle città come ne’ comunelli rurali dell’interno dell’Isola. Secondo le persone e i luoghi e l’ambiente in cui si vive, l’augurioso saluto è or aperto e sincero, che erompe dal cuore, ora freddo e artificioso, inteso, co’ varj atteggiamenti di forzato sorriso, a velare una invidiuzza, un dispetto, un odio feroce anche.
Al contadino, però, è ignota la simulazione e la doppiezza a questo riguardo. Egli vi porge il buon Capo danno; con franca espansione sempre, e con quel1’aria di ingenua bonomia che vi commuove. Egli, se per una ragione qualsiasi ha da dolersi di voi e non vi vuol bene, il primo giorno dell’anno nuovo, cerca in tutti modi di sfuggirvi, di non incontrarvi affatto; e se pur vi incontra a caso o è costretto a venirvi in presenza, egli o trova un pretesto per voltarsi di là e fingere che non vi ha visto, o vi dà il suo saluto con una sberrettata, ma tace; perocchè su le labbra non gli viene la santa parola dell’augurio, che non sente di dover fare e che reputerebbe delitto di fare con simulazione e mendacio. Bon Capu d’annu! dunque. E notate bene, come il nostro contadino, conservando la formola già adoperata dai Quiriti suoi antecessori: Annum novum faustum felicem, vi formuli sempre con quelle precise parole l’augurio suo; più ragionevole e più sincero e piú vero di quelli altri augurj che noi cittadini ci regaliamo tutti gli anni con iperbolica leggerezza: “Cent’anni di felicità! – Mille di questi giorni! – Un milione di giorni felici! – Vi auguro gli anni di Matusalemme!” ecc. ecc.
Conformemente all’antico uso de’ primitivi Romani, il primo giorno dell’anno è un giorno festivo e sacro, un giorno che dà norma agli altri trecentosessantaquattro. Ciò che in esso si fa, si farà per tutta l’annata; ciò che in esso ci accade, ci accadrà ugualmente fino a che l’annata non abbia attinto il suo fine. Da questa, inveterata ed universale credenza muove la costante cura in ciascuno di iniziarlo auguriosamente, eli evitare perciò tutt’i brutti incontri, tutti i dispiaceri, tutto quanto insomma ci può recar amarezza, e di cercare studiosamente che ogni cosa intorno ci sorrida, ci rechi gioja e consolazione all’anima, salute e prosperità al corpo. In appoggio a tale credenza, il contadino vi sciorina alcuni proverbj, che fanno parte del suo codice di sapienza tradizionale, immutabile ed infallibile, che sono i seguenti:
“Zoccu si fa lu Capu di l’annu
si fa tuttu l’annu.
Cu’ è malatu lu Capu di l’annu,
è malatu tuttu l’annu.
Capu di l’annu pénzacci ch’ha’ a fari,
si annata bona ti voi passari.
Capu di l’annu saluti e denari!
Pénzacci beni lu chiddu ch’ha’ a fari.”
Salute e denari: ecco quello che veramente e specialmente il contadino desidera e si augura per il Capo d’anno, e per conseguenza per l’anno intero. Nella salute e nei danari, ritratti da onesto lavoro, il contadino compendia tutte le aspirazioni di felicità, e con la salute e i danari crede e sente di poter sopperire a quanto occorre perchè la vita sua trascorra tranquilla e lieta e soddisfatta in tutto. Il concetto medesimo informa, del resto, la totalità quasi degli atti suoi, e lo abbiam visto ugualmente espresso in una canzona, solita a cantarsi durante l’allegro lavoro della vendemmia, lavoro che in essa canzona viene glorificato come sorgente di copioso guadagno.
Or poiché, in conformità alla tradizione ed agli insegnamenti di proverbj, dal primo giorno piglia norma ogni altro dell’anno, è naturale che, chi nasce in questo dì, sarà fortunato e felice per tutta la vita, quante volte esso dì è bello sereno; come è naturale che il contadino faccia di tutto perchè questo primo giorno ci passi allegramente in compagnia de’ suoi cari, per i quali e co’ quali apparecchia un desinare che si sforza di rendere ricco e piacevole, per quanto gli è possibile, di tutto il ben di Dio. Nel qual desinare però, posson mancare, e mancano in fatti (com’è naturale) molte e molte cose; ma non vi mancheranno mai le larghissime lasagne speciali condite con ricotta, che per tutta l’Isola portano uniformemente un nome poco pulito, in vero; il quale non toglie, però, ch’esse siano appetite e mangiate avidamente da tutti, anche nelle città, e anche chiamandole con esso nome appunto. E aggiungo di più: le lasagne del Capo d’anno non debbono essere manipolate nelle singole case dei contadini, come nel resto dell’annata suole praticarsi, ma comprate sempre dal pastajo, che appositamente le lavora per quel dì (lasagni d’arbìtriu); ed è perciò che in tutte le pasterie si vedono, il dì primo dell’anno, messe in bella mostra in gran copia, e sole, queste larghissime lasagne dal bordo ondulato; le quali poi vanno cotte così lunghe come sono, evitandosi, con la massima attenzione che si spezzino. La ricotta viene aggiunta ne’ piatti, e con essa il formaggio e l’indispensabile sugo dello stufato. A tutte queste minuzie, che sono di rito, si bada con ogni cura, se no non saranno le vere lasagne cacate del Capo d’anno. E queste vogliono essere, e non altra forma, se no, a chi mangia di questa, il proverbio pronostica scombussolio e guaj per tutto l’anno:
Cui mància a Capu d’annu
maccarruni
tuttu l’annu a ruzzuluni;
mentre, per contrario, le lasagne cacate, inaffiate (com’è giusto) da boccali di ottimo vino, fanno buon sangue, non per un giorno soltanto, ma per l’anno intero, giusta l’altro proverbio:
Lasagni cacati e tino a cannata
bon sangu fannu pri tutta lannata
Il flagello delle mance, con cui nelle città vi percuotono inesorabilmente a Capo d’anno e portinaji e servitori e barbieri e portalettere e fattorini e tutta la caterva di gente ai quali avete dato lavoro nell’anno ch’è terminato a pe’ quali non vi son venute spesso che seccature e dispiacenze, questo flagello, dico, vi è risparmiato dai buoni contadini che con voi hanno relazione, che lavorano la vostra terra, che vi han reso e rendono dei veri servigi. Il contadino accampa qualche diritto, se così vogliam dire, a qualche piccolo dono (in commestibili specialmente) nelle solennità del Carnevale, della Pasqua, del Natale; ma non pretende nulla, non chiede nulla pel Capo d’anno, giorno nel quale non vuole affatto far la figura di pitocco, chiedendo. Se gli regalerete spontaneo alcun che, lo accoglie esso con vera contentezza, come pronostico felice per l’anno che si inizia, come ottimo cominciamento di prosperità che avrà in esso, e però ne ringrazia lietissimamente Dio:
Lu Capu dannu si ti porta e duna,
vasa la terra, ca l’annata è bona;
ma quanto al chiedervi cosa, proprio in questo sacro giorno, egli non se ne persuaderà mai, ne’ mai vi si adatterà. Un solo proverbio mostrerebbe ch’egli chiede, una cosa soltanto:
Bon Capu d’annu! Bon Capo di misi! Li cucciddata unni su’ misi?
Ma questi cucciddata (o nucàtuli o mustazzoli, secondo la variante della città) sono i dolci speciali del Natale che il contadino si aspetta e pretende dal suo padrone; e se questi ha dimenticato a darglieli, ha indugiato, egli allora le chiede pigliandone occasione dal Bon Capu d’annu! che va ad augurargli; ma non li chiede già come strenna dell’anno novo, bensì come un debito del Natale, non soddisfattogli ancora, intendendo con essi ornare e arricchire la domestica mensa, apparecchiata per il solenne primo giorno dell’anno.
Il desinare de’ contadini è, nel Capo d’anno, come sempre, la sera. Mangiare gustosamente le lasagne cacate e il resto, la famigliuola rimane tutta in casa, a novellare al solito, a scherzare, a motteggiare, a fare qualcuno de’ prediletti giochi popolareschi. Un’altra usanza mi resta a menzionare, propria a questo giorno, ed essa appartiene alla massaja ed alle figliuole del contadino. Se un lavoro casalingo (si intende un piccolo lavoro) si è intrapreso o si trova già in corso il 31 dicembre, e’ bisogna ad ogni costo che sia terminato innanzi che l’anno termini; l’ora prima dell’anno novo non deve trovare incompleto quel lavoro, perocchè se ciò accadesse, il lavoro rimarrebbe incompleto tutto l’anno, per quanti sforzi di volontà e di opera si abbiano a fare per condurlo a fine. C’è tuttavia un mezzo di scongiurare questa singolare fatalità. Se la massaja, o la giovinetta che sia, s’è affannata tutto il santo dì per completare il suo lavoro ed intanto la mezzanotte scocca mentre non rimarrebbero al compimento che insignificanti o accessori residui, allora ella, prima che i rintocchi dell’orologio sien cessati, dee, ginocchioni e con le mani levate, recitare fervosamente cinque “Credo”, cinque “Salve Regina”, cinque “Pater”, cinque “Ave”, cinque “Gloria Patri”, e per ultimo questa tradizionale orazione:
“U Patri, u’ Figghiu, lu Spiritu Santu,
eterna Trinitati di cumannu,
chistu travagghiu l’hé stintatu
tantu! Ora ‘na sula grazia
‘ddimannu: Vui lu tuccati e lu
faciti santu, binidittu m’arresta
tuttu l’annu; e binidittu e binidittu sia,
biniditta la Vergine Maria!”
Si capisce bene che, recitate in furia, le preci sono espletate quasi sempre prima degli ultimi tocchi della mezzanotte; e allora la massaja va a dormire, lieta di avere scongiurata una fatalità che l’avrebbe preoccupata ed attristata assai.