Oggi non ci sono più i contadini che con le falci, rivolte verso il cielo nuvoloso e foriero di burrasche, tagliano il tempo per evitare la forte grandine, capace di distruggere il raccolto, o la continua pioggia che ingrossa i torrenti facendoli straripare e invadere i campi. Né le anziane donne recitano più litanie e scongiuri per evitare che i fulmini colpiscano le loro abitazioni. La mentalità magico-pastorale è stata sostituita da Organismi moderni ed efficienti come la Protezione Civile, mentre l’arrivo di forti perturbazioni atmosferiche viene puntualmente indicato da vari bollettini meteorologici. Pur tuttavia, in Italia e nel mondo continuano a succedere, ogni anno con sempre più maggiore frequenza, disastrose alluvioni che portano vie intere contrade e quartieri provocando diverse vittime fra i cittadini. In parte tutto ciò è dà attribuirsi agli improvvisi cambiamenti climatici, il resto alla incoscienza dell’uomo che sta distruggendo il paesaggio in cui sono vissuti i suoi antenati.
Anche nel territorio siciliano, spesso, si costruisce in modo selvaggio e il paesaggio, in maggior parte, è deturpato dal degrado ambientale, sebbene la sua tutela sia garantita dalla Costituzione e da un serie di leggi successive, precise ed oculate che puntualmente vengono, con furbizia, evase. Un paesaggio che cambia, ogni giorno, peggiorando sempre in modo incessante, dove non si utilizza più la pietra del luogo (adoperata un tempo per costruire mulini e palmenti, masserie e trappeti, muretti a secco, canali di scolo, pozzi e cisterne), che connotava, a livello estetico e cromatico, luoghi e abitazioni. «Il territorio terrazzato in Sicilia rivela aspetti paesaggistici di grande pregio, spesso purtroppo minacciati da diverse forme di degrado – dal cambiamento degli usi e dell’urbanizzazione, al diffuso abbandono delle coltivazioni – che apre la strada agli incendi che comportano la trasformazione del paesaggio e in esso dei manufatti, oggi più legati al tempo libero che all’agricoltura ». È saltato in pratica l’equilibrio città-campagna, come ammonisce Salvatore Settis, e la campagna è invasa dalla città, ma non è diventata città e non è più campagna. Si è posto il mercato al di sopra di ogni altro valore e lo spazio sociale, che era carico di senso, è stato travolto dal meccanismo consumistico di una violenta rottamazione, vale non perché possiamo viverlo, ma solo in quanto può essere occupato, prezzato, cannibalizzato, come è successo nella recente cronaca dei rifiuti industriali seppelliti nelle fertili terre della Campania.
Oggi stanno, man mano, scomparendo le caratteristiche torrette (tante volte somiglianti a piccole piramidi), i terrazzamenti e i muretti a secco, adatti al drenaggio, che filtrando le acque trattenevano fanghi e detriti. Non ci sono più le antiche cisterne, le quali raccoglievano non solo la pioggia caduta sui tetti ma anche l’acqua che scendeva dai sentieri e dai declivi, come quella rinvenuta in una contrada di Ragalna, nei pressi di una dagala (dall’ arabo dahal) cioè un tratto di terreno coltivato, circondato dalla lava. I valloni , che raccoglievano le acque torrentizie, sono stati trasformati in strade e gli antichi tratturi da cui scendevano a valle, nella piana, le greggi sono stati recintati con pali, conficcati nel cemento. Ognuno, come conclude Voltaire nel suo Candide, finisce con il coltivare, sicuro, il proprio orticello senza pensare (oh..stolto!) al prossimo temporale che, nella sua furia devastatrice, porterà via, invece, tutto il campo senza fare distinzioni tra uomini, animali e cose.