Dieci cose di cui abbiamo bisogno in vista della Pac 2013. Per quale trauma, forse databile con la povertà delle campagne d’inizio Novecento, in questo paese, quando si parla di agricoltura, nella migliore delle ipotesi siamo distratti, e nella peggiore siamo infastiditi? Ne è un sintomo non soltanto il malcelato recalcitrare di chi ogni tanto ha in sorte il Ministero delle Politiche Agricole e Forestali, ma anche il disinteresse che l’intera società civile manifesta nei confronti dell’attuazione delle sue politiche. L’agricoltura parrebbe fuori dall’italico radar. Ma almeno, il nuovo Ministro del Governo Monti, Mario Catania, è un dirigente del MIPAF da più di 30 anni e sicuramente conoscerà l’importanza del settore, soprattutto la necessità di un rapporto forte con la Commissione Europea. Nell’augurargli buon lavoro dobbiamo tuttavia constatare che, dal 2008, egli è il quarto Ministro dell’Agricoltura del nostro Paese, e anche questo la dice lunga sull’attenzione della politica verso la questione agroalimentare.
Nemmeno in questo momento storico, in cui la società civile si mobilita su questioni cruciali come quella dell’acqua pubblica o del consumo di suolo, quella miccia prende fuoco: sull’agricoltura non ci entusiasmiamo. E questo vale ovviamente anche a livello europeo. Per esempio, se si chiede in giro che cosa è la PAC, pochi sapranno rispondere.
PAC sta per Politica Agricola Comune, le normative europee in tema di agricoltura. Non mi sembra una cosa normale non saperne niente. Perché se ci dicessero che non capiamo niente di cibo, ci offenderemmo.
Ma come si può avere una cultura del cibo se si ritiene l’agricoltura un argomento poco interessante? Oggi l’esodo dalle campagne ha toccato il suo punto più drammatico, allora perché non riflettere sul fatto che una nuova idea di agricoltura può favorire progetti di vita per tanti giovani chiamati non a fare la vita grama dei vecchi contadini, ma un lavoro moderno, dignitoso e gratificante? Stiamo parlando di migliaia di nuovi posti di lavoro, di sostenibilità, quindi di assoluto bisogno di nuove politiche agricole.
La PAC c’è dalla fine degli anni Cinquanta, ed è una buona cosa che ci sia, perché l’Europa è un’unica, gigantesca zolla di terra, che può inquinare o proteggere l’acqua e l’aria di tutto il continente. Occorre che ce ne prendiamo cura tutti con le stesse logiche, altrimenti qualcuno fa il danno di tutti e nessuno riesce a fare il bene di tutti.
Ora la PAC è in fase di revisione: dopo un lungo iter di consultazioni è stata presentata, ad ottobre, la proposta legislativa che dovrà passare attraverso un processo di co-decisione che coinvolge il Parlamento Europeo e il Consiglio Europeo. Questo processo sarà piuttosto lungo prima che la nuova normativa entri in vigore presumibilmente a inizio 2014, quindi c’è un po’ di tempo per partecipare, per far sentire la nostra voce, cercare i nostri parlamentari, raccogliere firme se necessario, fare dibattiti, convegni, … insomma le cose normali di quando le cose ci stanno a cuore.
C’è poi un ulteriore motivo per occuparsi della PAC: tutti i cittadini dei paesi dell’Unione pagano tasse che vengono destinate ai vari settori di attività: dall’agricoltura all’educazione, alla salute etc. Ora, rispetto al budget totale a disposizione dell’Unione Europea circa il 40% viene destinato alle politiche agricole.
Ma la domanda è: a quale agricoltura vanno questi soldi? Prevalentemente all’agricoltura di quantità, quella dell’agrobusiness, dei grandi mercati internazionali, delle monocolture, della grande distribuzione organizzata, delle grandi aziende di capitale. Con qualche lieve miglioramento rispetto al passato, anche la nuova proposta presentata ad ottobre sembra andare in questa direzione. Grosso modo l’80% del budget sarebbe ancora destinato a questo tipo di agricoltura e solo il 20% andrebbe a supportare le produzioni sostenibili e di piccola scala.
Però noi di cosa abbiamo realmente bisogno? Proviamo a fare un elenco, che vale per l’Italia come per il resto d’Europa (oltre che del mondo, ma il mondo non ha ancora un organismo di governo planetario, a meno che non si voglia ritenere che il WTO e la Banca Mondiale svolgano questa funzione):
1 – abbiamo bisogno di garantire la fertilità dei suoli
2 – abbiamo bisogno di incentivare l’agricoltura nelle zone a rischio idrogeologico perchè le attività forestali e agricole prevengono il degrado del territorio, mantenendo le comunità nelle loro sedi naturali a prendesi cura dei paesaggi
3 – abbiamo bisogno di ridurre le emissioni di CO2, in larga percentuale addebitabili agli allevamenti intensivi, al trasporto di generi alimentari per le grandi distribuzioni, agli sprechi energetici che il sistema alimentare globale impone
4 – abbiamo bisogno di ridurre gli sprechi, perchè un terzo del cibo prodotto finisce direttamente nella spazzatura (e occorre ulteriore energia per smaltirlo) e questo è innanzitutto immorale, secondariamente stupido; è come buttare soldi, guadagnati usando le risorse di tutti, nella pattumiera, con infaticabile costanza
5 – abbiamo bisogno di proteggere le risorse come gli oceani, le acque interne e l’aria da un processo di inquinamento chimico che non può più essere tollerato
6 – abbiamo bisogno di invertire la tendenza delle malattie “da benessere” come l’obesità, il diabete, i disordini cardiocircolatori, i tumori, causate in buona parte dall’inquinamento dell’acqua e dell’aria, dall’alimentazione di cattiva qualità, dalla presenza di chimica legalizzata (si pensi ai coloranti, agli additivi, agli aromi naturali) nel nostro cibo quotidiano
7 – abbiamo bisogno di mitigare i cambiamenti climatici
8 – abbiamo bisogno di proteggere le culture locali, che hanno in sé molte informazioni utili in questi tempi di crisi ambientale, sociale ed economica
9 – abbiamo bisogno di proteggere le economie locali, e i mercati di prossimità, che possono rivitalizzare le nostre aree rurali e farle tornare ad essere luoghi di benessere, di produzione di reddito, di valori aggiunti, di occupazione giovanile
10 – abbiamo bisogno di mantenere alte le bandiere del turismo, che non si nutre solo di visite alle città d’arte o agli outlet, ma soprattutto di paesaggi agrari e di territori accoglienti
E chi fa tutto questo, tutti i giorni, senza ricevere nessun compenso? L’agricoltura di qualità: quella che bada alla qualità del prodotto e a quella della produzione, che ha come obiettivo primario il cibo per le persone e non le merci per i mercati. Un’agricoltura che, nella stragrande maggioranza dei casi, è un’agricoltura di piccola scala. Ecco, noi vorremmo che la nuova PAC destinasse molto di più a questo tipo di agricoltura, e non soltanto il 20%. Vorremmo questa rivoluzione, che si ricordi che se un pezzo di mondo è ancora in piedi è grazie ad un’agricoltura, per parafrasare Alexander Langer , «più lenta, più dolce, più profonda».
Ci dovevamo pensare prima, dirà qualcuno, e cioè quando abbiamo votato alle europee: ma quelle elezioni da questo punto di vista non andarono affatto male, perché ci fu un importante successo dei partiti ecologisti. Forse allora non tutto è perduto. Se iniziamo a insistere in ogni occasione possibile, su questi argomenti, qualche passo importante si può ancora fare.
Non è solo una questione di bisogni: è anche una questione di diritti, cosa importante, visto che si usano i nostri soldi e non è giusto che li si usino per danneggiarci. Provate a trasformare l’elenco di prima in un elenco di diritti, vedrete che si fa in fretta. E il diritto principale, che li racchiude tutti, si chiama “sovranità alimentare”. Ecco di cosa si stanno dimenticando, a Bruxelles: che abbiamo diritto a un cibo «salubre, culturalmente appropriato, prodotto attraverso metodi sostenibili ed ecologici». E questo, l’agricoltura orientata all’industria e ai grandi mercati, semplicemente, non lo può fare.
Fonte: Carlo Petrini – Archivio di Slow Food