Sul Grande Terremoto in Sicilia del 1693

1693_Sicily_earthquakeIl mese di gennaio ricorda un anniversario doloroso che ha segnato profondamente la fisionomia della parte orientale della Sicilia. L’anno era il 1693. L’11 gennaio. Di annate tristi se ne erano registrate anche prima e certamente, dopo, tra carestie e povertà non andrà meglio.

Ma il ‘693 si è impresso in maniera straordinaria nella memoria dei siciliani. Tra il 9 e l’11 gennaio, come ben sappiamo, due terribili scosse sconquassarono il territorio mietendo distruzione e morte. “[…] il Giovedì otto del caduto Gennaio s’intese un piccolo terremoto il quale non fu avvertito che da pochi; il Venerdì 9 di detto mese ad ore quattro e tre quarti se ne intese un altro che scosse tutto il regno, ma non fece danno di considerazione […],questo avvenimento pose in qualche apprensione il Regno e quel Valle in parte.

La Domenica ad ore 17 in circa se ne sentì un altro nel solo Val di Noto […] La medesima Domenica ad ore venti e tre quarti in circa s’intese quello che fece la strage più deplorabile che si fosse mai verificata nei secoli […]” così leggiamo in una testimonianza di ciò che accadde contenuta in un volume Custodito al Centro Studi “F.Rossitto” di Ragusa dal titolo 1693 lo spazio di un miserere cronache del terremoto nel val di Noto di Giuseppe Cultrera e Luigi Lombardo, Utopia Edizioni. Si tratta di una lettera manoscritta del Beneficiale D.Antonio Le Favi partita da Palermo e diretta al suo superiore a Roma.

Ma in quest’ interessantissima pubblicazione sono raccolte le voci di coloro che vissero in prima persona quei terribili momenti. Pare che il terremoto fosse stato annunciato da diversi fenomeni naturali ma la “scienza” popolare aveva registrato segni del negativo legato alla rottura dell’ordine naturale delle cose: colpa dei terremoti erano i troppi peccati degli uomini! In una antica ballata intitolata U tirrimotu anticu leggiamo:Ratimi urienzi, gintili signuri, cosi trimenni vorru accuminzari.[…], forti la terra accuminzau a trimari chistu è lu primi avvisu e dammu accura, […],era signu ri gghiuriziu universali, era spavientu ogni criatura, si nun era ppi Maria ca iu a priari lu ‘nfiernu ni sirivia pì ssipurtura. […]ogni pirsuna rissi: “Siemu agghiunti chista è ciamata ri l’eternu patri,ni ciama p’arrinnirici li cunti, comu beni manciamu e stamu satri”[…] – la ballata seguita a descrivere i paesi straziati dalla distruzione e giunti alla contea si legge – Modica era cunzata nta castieddu tutti nta puntu si vistinu scacciati, o cristiani pinzati a stu sfacelu lu dannu l’anu fattu li piccati ora viriti li petri a munzieddu .[…]”.

Da lettere e corrispondenze dell’epoca contenute in fonti archivistiche si può per esempio, evincere la spiegazione che la gente si dava di fronte all’ira divina che si era manifestata attraverso la forza distruttiva del terremoto. Un Medico di allora, certo Antonio Boscarelli individuava la ragione del terremoto: “per li tri piccati quali erano: la poco rilevanza che avevano alle chiese, l’ingiustizia delli ministri e lo peccato della lascivia”.

Il terremoto diede luogo in tutta la Sicilia a cerimonie di espiazione collettiva. Tra coloro che furono testimoni troviamo uomini di chiesa che relazionavano ai loro superiori. È così che molti di loro definirono l’attimo della distruzione come “lo spazio di un miserere” o “lo spazio di un De profundis”, “un batter di palpebre”. Dalla stessa lettera del Le Favi si legge che alcune città perirono del tutto come Mascali, Ferla, Iaci, Avola, Sortino mentre altre tra cui Modica, Ragusa, Scicli perirono “quasi” del tutto: “ se volessi descrivere puntualmente alla S.V Ill.ma tutti gli effetti del terremoto ci vorrebbe un grosso volume”.

Ne la Istoria Cronologica de’ terremoti di Sicilia di Antonio Mongitore (consultabile in rete) si legge che “in questo lacrimevole, e universal terremoto di Sicilia precipitarono 60 fra città e terre e morirono oppressi dalle rovine circa 60 mila persone. In una lettera manoscritta di Pietro dell’Arte Storia dell’antica Avola si legge che “e parimente ognuno senza badare ad interesse abbandonò le case et uscì al scoverto […] in questo mentre ognuno era uscito, o s’affrettava per uscire ad ore 20 et quarto circa replicò il terremoto così fiero e terribile ore 40 dopo il primo.[…]

Gli spettacoli si viddero e si praticarono mentre faceva il terremoto non può penna humana esprimere”. Le cronache di ciò che accadde si tramandarono oralmente nelle ballate dei cantastorie che le ricordavano con tutto il loro carico di paura desolazione e distruzione: seguiamo i fatti come vengono cantati in un canto popolare:

All’unnici ‘i jnnaru, a vintin’ura,

Fu ppi tuttu lu munnu ‘na ruina.

Piccili e ‘ranni sutta li timpuna,

Riciennu: “Aiutu!” e nuddu ci ni rava.

Su nn’era ppi Maria, nostra Signura,

Tutti fuorrumu muorti all’ura r’ora;

All’ura r’ora, cianciriemmu forti

Sì Maria nun facia li nostri parti:

C’è bisuognu ri starici a li curti

Ca cala Cristu ccu scritturi e carti.

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