LA NOSTRA STORIA: Chiusa Sclafani riscopre la centenaria storia dei pani votivi di S. Giuseppe

Giustizia è fatta! Grazie a Mario Liberto Chiusa Sclafani riscopre la centenaria storia dei pani votivi di S. Giuseppe, festeggiata con una suntuosa manifestazione che ha visto il salone delle feste del Circolo Ufficiali di Palermo interamente gremito. Relatori del prezioso volume “I pani votivi di S. Giuseppe a Chiusa Sclafani e la mostra Etnografica di Palermo sono stati: la dr.ssa Eliana Calandra, direttrice del Museo Pitrè di Palermo, lo scrittore Pippo Oddo, autore della presentazione dello stesso libro e la Docente universitaria Rita Cedrini. Presente inoltre l’On.le Antonello Antinoro, componente della Commissione cultura della Regione Siciliana.

Il libro, pone in relazione la “Rassegna nazionale dell’Esposizione”, volta a celebrare i fasti industriali della Sicilia tardo-ottocentesca, con la religiosità popolare del piccolo comune rurale di Chiusa Sclafani. L’evento, inaugurato il 15 novembre 1891 dal re Umberto I e dalla regina Margherita, durò fino al 5 giugno dell’anno successivo e fu scandito da una serie di incontri mondani nella «regale» Sala delle Feste, allestita all’interno dei padiglioni dell’Esposizione, progettati ed eseguiti dall’architetto Ernesto Basile nello spiazzo, «allora sgombro di palazzi», dell’attuale piazza S. Oliva. Si tennero gran balli e concerti, gare orchestrali e un torneo internazionale di scherma nell’annesso giardino e nelle gallerie. Una delle ultime manifestazioni sensazionali fu la corrida de toros, che si svolse, il 10 maggio 1892, a Piazza Vittoria. L’Esposizione Nazionale di Palermo è tuttora considerata dagli storici, come il momento di lancio della belle époche di fine secolo in Sicilia.

A Palermo si contarono ben 8.000 espositori, a fronte dei 7.000 registrati, dieci anni prima, in occasione dell’Esposizione Nazionale di Milano. Tra gli spazi espositivi della rassegna palermitana non si rilevò privo d’interesse quello riservato alla Mostra Etnografica Siciliana, ordinata dal medico palermitano Giuseppe Pitrè, il più autorevole studioso italiano del folklore e delle tradizioni del popolo. Tra coloro che, nel novembre 1891, inviarono reperti etnografici al Comitato organizzatore della Mostra si rilevò degno di particolare menzione un certo Lo Cascio Mangano di Chiusa Sclafani, esponente di «una delle famiglie più facoltose del paese»: parola di Mario Liberto, autore del libro, presidente della nostra delegazione siciliana. La «gentile mediazione» dell’agiato galantuomo – fece sì che la Mostra Etnografica potesse esporre un maestoso pane di San Giuseppe dal peso di 12 kg e il diametro di un metro e mezzo, tipico Vucciddatu votivo (confezionato a gloria del “Padre della Provvidenza” dalle donne di Chiusa Sclafani), «pane di semola in forma di ciambella così grande che per mettersi in forno esige lo allargamento della bocca di questo»; ed inoltre 32 pani di San Giuseppe di Chiusa Sclafani. Centinaia di migliaia di visitatori dell’Esposizione Nazionale di Palermo, provenienti da ogni parte d’Italia, e persino dall’estero hanno potuto ammirare i curiosi pani votivi del Patriarca, frutto della fabbrilità creativa delle sue compaesane: cose, insomma, che conferivano all’evento palermitano una nota di colore non meno esotica, forse, di quella suscitata dalla presenza dei tucul e dei tamburi africani nella contigua Mostra Abissina, o Plaza de toros. I pani votivi non erano, infatti, solo beni alimentari: erano, e continuano ad essere, anche autentici capolavori d’arte plastica effimera, adesso degni di essere usati come soprammobili e un tempo come preziosi talismani, capaci di consentire alla povera gente di affrontare «in regime protetto», come soleva dire Ernesto De Martino, «la presenza del negativo nella storia». L’uso dei pani di San Giuseppe in funzione apotropaica da parte degli abitanti di Chiusa Sclafani è documentato bene da questa ricerca di Mario Liberto: «Durante le tempeste, quando la natura può mettere in pericolo la vita della comunità, si spezza un pezzo di pane benedetto e si butta in strada», recitando una colorita orazione a Santa Barbara, la miracolosa Patrona dei fulmini, cui si è ispirato, in un suo celebre romanzo, lo scrittore sudamericano Jorge Amado.  Non nuovo alla ricerca dei cocci sparsi della cultura contadina della sua Chiusa Sclafani, Liberto si è sobbarcato ad un’ennesima faticata per ricostruire ciò che resta (nella memoria di quelle biblioteche ambulanti che sono gli anziani e nell’apparato celebrativo della festa dei nostri giorni), non solo dei pani votivi di San Giuseppe, ma anche delle caratteristiche originarie della sacra ricorrenza di marzo. Per venirne a capo, L’Autore ha esplorato con pazienza certosina fonti edite e d’archivio e persino una vecchia tesi di laurea sulle tradizioni di Chiusa Sclafani, di cui fu relatore, a metà degli anni Quaranta del secolo scorso, Giuseppe Cocchiara. La devozione al Patriarca San Giuseppe, a Chiusa Sclafani, ha un cuore antico, a giudicare anche dall’esistenza di un artistico simulacro ligneo, forse di bottega napoletana, costruito all’inizio dell’Ottocento, in sostituzione di una statua precedente di cui si conserva la memoria nel locale Archivio parrocchiale. Tutto lascia credere che, nel ridente paesino del Sosio, il Padre della Provvidenza sia onorato in modo solenne fin dagli albori della storia di Chiusa. Tra i pani votivi la cui presenza a Chiusa Sclafani è documentata dall’Ottocento ai nostri giorni ce ne sono alcuni di cui Pitrè non ha fornito il nome, bensì il disegno. Esula da questa nota la disamina dei diversi pani votivi che le donne di Chiusa Sclafani confezionano il 19 marzo, oltre tutto perché l’Autore ha saputo documentare egregiamente, e con il necessario corredo iconografico, tutta la ricchezza espressiva di questi rari capolavori d’arte effimera, riportati alla luce dalla sua ricerca. Liberto evidenzia inoltre l’influenza che la scuola degli intagliatori locali hanno influenzato anche “incondizionatamente” l’arte al femminile delle donne chiusesi. Circa le qualità professionali dei mastri d’ascia, basti ricordare che nel Cinquecento Silvio e Marco Lo Cascio (padre e figlio) assursero alla dignità di scultori in legno apprezzati in tutta la Sicilia occidentale. Nella loro bottega si formarono altri artisti, che hanno lasciato il segno in diverse chiese siciliane. I pani votivi riportati alla luce dalla ricerca di Mario Liberto sono dunque pezzi di cultura ritrovata, tessere del mosaico di una concezione del mondo e della vita ridotto in frantumi dall’incalzare della globalizzazione selvaggia”.

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