Un Villaggio sui rilievi dei Nebrodi

Antiche dimore rurali e masserie si inseriscono ancora oggi in maniera armonica nelle campagne del territorio siciliano; edificate fin dal passato in siti accuratamente scelti, in relazione alla vicinanza ai terreni da coltivare, alla presenza d’acqua (sorgenti, torrenti o fiumi) o lungo le trazzere, da abitazioni monocellulari si sono trasformate in abitazioni costituite da più ambienti, fino ad ampliarsi in piccoli centri, successivamente abbandonati o trasformati in villaggi o casali.

Se in alcune zone della Sicilia prendono slancio e si diffondono i siti rupestri scavati nella roccia, in altre aree la dimora rurale rimane costituita da una costruzione del tipo protostorica, il cosiddetto “pagliaio” o “capanna-pagliaio”, secondo una tipologia diffusa in tutta l’area mediterranea per un lungo periodo.

Una evoluzione di tale tipologia abitativa è rappresentata dalla dimora “unicellulare” o “elementare”, non più realizzata in legno ma in muratura; tra queste sono da annoverare anche le abitazioni temporanee dei pastori, costruzioni a pianta rettangolare, ad uno o più vani, con pareti non intonacate e copertura ad un solo spiovente (“spasa”), la cui inclinazione è rivolta verso il prospetto principale.

Tali dimore, denominate anche “marcati”, dall’arabo “marqad” = “luogo di riposo”, erano costituite da un complesso di ricoveri, comprendenti la capanna dei pastori e gli ambienti nei quali avveniva la caseificazione, oltre ai recinti per le greggi. Esse venivano abitate nell’arco di tempo che andava dalla primavera all’autunno, periodo in cui si effettuava la transumanza del bestiame, al fine di poter utilizzare i pascoli di montagna.

Nell’areale dei Nebrodi questa tipologia di abitazione viene denominata anche “casudda” o “casotta”, rivestendo un tempo funzioni agricolo-pastorali nell’ambito dei terreni destinati a coltura promiscua.

Adagiato sui rilievi meridionali dei Nebrodi, in territorio di Cesarò, il villaggio di Càiola, il cui nome è dato dalla contrada omonima, rappresenta un esempio di insediamento rurale costituito da un cospicuo numero di dimore elementari.

Il sito è posto ad un’altitudine di circa 1.020 metri, con esposizione rivolta a Mezzogiorno, in una zona ricca di pascoli, poco distante da una trazzera che permette di raggiungere anche un antico mulino, e da un corso d’acqua affluente del torrente Sant’Elia.

Il toponimo “Càiola” è attestato nella documentazione d’archivio a partire già dal Medioevo, precisamente nel 1343, in cui viene citata una <<contrata que dicitur de Cayola>>. Altre attestazioni riguardano periodi più recenti: nel 1743 il tenimento denominato <<di Cajola>> fornisce all’abbazia basiliana di San Michele Arcangelo di Troina, un reddito annuo di almeno quattro salme in frumento.

Buona parte dei fabbricati che costituiscono l’insediamento in questione sono ubicati all’interno di un’area cinta da un muretto “a secco”, il quale circoscrive una superficie di poco meno di tre ettari; altri fabbricati, pur facenti parte dello stesso nucleo insediativo, sono presenti, invece, a poca distanza da tale area.

Se fino al secondo dopoguerra questi territori venivano ancora coltivati per buona parte a cereali (frumento ed orzo), oggi gli stessi sono costituiti da un’ampia distesa pascolativa che, anno dopo anno, diventa sempre più degradata. Oltre alle comuni essenze pabulari, tipiche dei territori montani siciliani, prevalgono l’asfodelo (“cipuddazzu”), la ferula (“ferla”), il perastro (“pirainu”), la rosa canina (“naccarara”) ed il biancospino (“spina pulici”). Sparse qua e là, secolari querce (“ruvula”) abbelliscono il paesaggio; espressione, quest’ultimo, dei cosiddetti “regosuoli”, terreni agrari non molto stabili che includono argille e rocce affioranti.

Oggi, parte di questi fabbricati si presenta in precarie condizioni di staticità, diroccati e ricoperti da rovi e fitta vegetazione che ne occultano l’impianto e le caratteristiche di ogni manufatto. Stabilire, pertanto, quante abitazioni in origine erano presenti in tale sito non è stato del tutto facile e solamente attraverso l’ausilio del supporto catastale e cartografico si è giunti all’esatta ubicazione di ogni fabbricato, oltre alla determinazione del loro numero.

L’insediamento posto all’interno della perimetrazione a muretti è costituito da diciassette edifici, non più abitati, che si sviluppano al solo piano terra. Di questi, una buona parte si presenta in forma isolata, quasi tutti a pianta rettangolare e bicellulari, tali da accogliere, un tempo, una popolazione stagionale di almeno cinquanta abitanti.

Il prospetto principale di ogni dimora presenta una o due porte d’ingresso, ad un solo battente, i cui stipiti sono realizzati in pietra, indifferentemente ad arco o ad architrave. Esigue sono le finestre, per cui l’interno risulta poco illuminato; l’inconveniente veniva attenuato da una finestrella-sportello (“puttieddu”) priva di vetro, praticata nella porta di accesso. La copertura (“cuvittizzu”), costituita da travature che sorreggono il tavolato e le soprastanti tegole, è costituita senza alcun rivestimento interno; grosse pietre poste sulle stesse tegole impedivano ai venti di scoperchiare o danneggiare i tetti.

All’interno di ogni abitazione, un tempo ripartita mediante tramezzi in legno o in muratura, sono presenti due ambienti, destinati l’uno alla cucina, col focolare (“funnaca”) che serviva anche per la lavorazione del latte, l’altro a zona letto con i giacigli. In qualche dimora è annesso, nella parte più esterna, anche il forno.

Vi era, comunque, assenza di ogni promiscuità con gli animali da lavoro, i quali venivano riparati solitamente in un locale giustapposto denominato “pinnata”.

I caratteri di arcaicità di tali fabbricati sono rappresentati, oltre che dall’assenza di soffittature, per cui rimane a vista l’intelaiatura delle tavole che sorregge il piano di tegole (alcune volte tenuti da una trave che s’innalzava dal centro della camera), da una robusta muratura portante perimetrale, costituita da pietre rozzamente squadrate e messe in opera senza alcuna malta cementizia. Lo spessore di tali muri, oltre a permettere di ricavare qualche nicchia, la cosiddetta “azzana”, avente funzione di custodire i pochi utensili dell’attività domestica, faceva sì che l’ambiente interno rimanesse fresco in estate e tiepido in inverno. Infine, il pavimento è costituito da lastre di pietra, anche se in alcune dimore sono presenti i mattoni d’argilla o, più semplicemente, la terra battuta.

Esternamente, prospiciente ad ogni fabbricato, si apre uno spazio incolto in terra battuta o lastricato, una piccola corte dove spesso una pianta di fico (“ficara”) stende i suoi rami davanti alla porta, oppure un pergolato di viti che con lussureggianti tralci appresta ombra in estate, producendo uve gustose in autunno.

L’interno di tali dimore risultava privo di qualsiasi forma di arredamento o mobilio, se non la presenza, oltre che del focolare e del giaciglio, di un tavolino (“buffetta”) e di alcuni sedili (“scanni ‘i ferla”).

Tra i diversi fabbricati riscontrati nel villaggio di Càiola, per ampiezza e caratteristiche costruttive ne primeggia uno in particolare, costituito da un tetto a due falde, inclinate verso i prospetti laterali. Era questo un edificio, anch’esso a due vani, denominato “pannittaria”, provvisto di un ampio forno che serviva a produrre il pane per i lavoratori giornalieri (“jurnatari”) impiegati nelle operazioni colturali stagionali dei campi, quale la semina o la mietitura.

Il sito sopra descritto, risalente alla prima metà del XVIII secolo, rappresenta pertanto una significativa testimonianza nell’ambito dell’articolazione e della stratificazione storica, antropologica ed urbanistica del territorio nel quale ricade.

Attraverso interventi di restauro e di recupero, coerenti con le strutture architettoniche originarie e con il tessuto insediativo, tale patrimonio edilizio rurale, di pregevole valore, potrebbe essere utilizzato nella fruizione del verde e dell’ambiente in genere. Essendo inserito in una zona ad elevata valenza paesaggistica, potrebbe diventare base di partenza per escursioni nel vicino Parco dei Nebrodi e nell’ambito delle seguenti iniziative: inserimento in percorsi legati al turismo naturalistico e storico-culturale; illustrazione delle modalità tradizionali di lavorazione dei prodotti agricoli, dell’allevamento e della caseificazione; diffusione delle conoscenze ambientali e paesaggistiche dell’area e del territorio circostante.

Bibliografia di riferimento:

TRAINA A., Nuovo vocabolario Siciliano-Italiano, Palermo, 1868. SALOMONE MARINO S., Costumi ed usanze dei contadini di Sicilia, Palermo, 1897. VALUSSI G., La casa rurale nella Sicilia Occidentale, Firenze, 1968. AA.VV., La casa rurale nella Sicilia Orientale, Firenze, 1973.

Potrebbe piacerti anche

Altri articoli in Turismo