Paternò

Paternò ha origini antichissime, essendo stato il sito su cui sorge, popolato sin da epoche antecedenti la venuta dei Greci. Esso ha attraversato momenti di grande splendore, in particolare sotto il dominio arabo, normanno e svevo

Paternò e le sue origini

L’origine dei primi insediamenti nel territorio dell’attuale Paternò si fanno comunemente risalire ad un’epoca antecedente la venuta dei Greci, nell’epoca di Tapsos (1.050-850 a. C.), come sembrano testimoniare i numerosi rinvenimenti archeologici che denunziano la presenza di una città il cui nome era Ibla Gereatide. Le genti del sito si opposero con forza al successivo processo di ellenizzazione, come altre città della Sicilia, sotto la guida di Ducezio. Divenuta, in seguito, città stipendiaria romana, il centro si distinse come importante crocevia commerciale e di produzione di miele (la cui qualità viene esaltata da Virgilio nella I Bucolica) e di grano. Sotto la dominazione romana l’area vive un periodo di grande splendore con la costruzione di ponti e strade che consentivano un rapido movimento delle merci dalle zone più interne della Sicilia sino al porto di Catania. Con la fine della dominazione romana e l’avvento dei Bizantini, la città attraversa un periodo di decadenza e come tale si presentò agli Arabi che la occuparono nel IX sec. chiamandola Batarnù. Gli Arabi iniziarono un processo di rilancio dell’economia della città, rivitalizzando l’agricoltura con appropriati mezzi di canalizzazione delle acque, costruendo l’asse dei mulini e potenziando il sistema viario. L’attuale città nasce tuttavia attorno al castello, costruito, nel 1073 dal conte normanno Ruggero che fortificò l’area creandosi un ponte, strategicamente rilevante, proteso verso la vicina città di Catania. Le fortificazioni cingevano la cosiddetta “collina storica di Paternò” racchiudendo il castello, e le chiese di S. Maria in valle di Josaphat, di S. Francesco e della Matrice. La fase di ascesa della città, iniziata con la dominazione araba, non accenna a terminare sotto i Normanni che cederanno il suo controllo agli Svevi dopo il matrimonio di Enrico IV con la loro ultima discendente, Costanza d’Altavilla. In questa fase è tutta la Sicilia a divenire dominio svevo sotto l’imperatore Federico II che scelse Paternò come meta per le sue battute di caccia con il falcone. Sorte senz’altro diversa tocca a Paternò nel periodo successivo al dominio svevo, rimpianto sotto i francesi prima, e sotto gli aragonesi, successivamente. Sino al 1431, quando fu venduta a Nicolò Speciale, Paternò divenne patrimonio della “camera reginale” e costituì la dimora di numerose regine fra le quali si ricorda Bianca di Navarra che abitò il castello per un periodo molto lungo durante il quale approvò le Consuetudini di Paternò, una sorta di codice in 87 tavole che riguardavano varie forme di diritto: quello familiare, matrimoniale, commerciale e privato. L’epoca delle regine è seguita da una fase di abbandono della collina i cui abitanti si spinsero verso la valle, popolando le campagne limitrofe ed espandendo la città. Nel 1453 avviene la rilevante acquisizione della città da parte di Guglielmo Raimondo Moncada che la acquistò da Nicolò Speciale, garantendone il controllo per sé e per i suoi eredi; il loro dominio durerà sino al 1847. Sotto i Moncada, numerosi furono gli edifici religiosi eretti in Paternò ad opera delle molte confraternite che vi operavano e, tra questi, la chiesa di S. Antonio, con l’annesso convento dei Padri conventuali e quella di S. Domenico con il convento dei Padri Domenicani. La collina perde sempre più il suo ruolo di cuore della città in favore della parte bassa, in forte espansione demografica ed economica. A partire dal 1816, allorquando Ferdinando I di Borbone diveniva re di Sicilia, Paternò divenne centro di cospirazioni antiborboniche (vi era attiva una “vendita” carbonara) che raggiunsero l’acme con i moti del 1837, del 1848-49 ed infine nel 1860 con il definitivo innalzarsi della bandiera tricolore. Due anni dopo, accolto dalla folla esultante, attraversò la città Giuseppe Garibaldi. Lo sviluppo dei nuovi modi di produzione indusse la nascita anche in Paternò di numerose società operaie che aderirono alle sanguinose rivolte sociali del 1896. Per tutto questo secolo, per Paternò, non si arresta la fase di espansione urbana che avviene soprattutto verso sud alla ricerca di ogni possibile spazio vitale in grado di sorreggere la notevole crescita demografica derivante anche dal progressivo abbandono delle campagne. Sul finire della II Guerra Mondiale il paese contò le sue numerosissime vittime cadute sotto i bombardamenti aerei dell’agosto del 1943.


E’ la collina il cuore storico di Paternò. Essa conserva praticamente intatti tesori architettonici che dimostrano la ricchezza e lo splendore delle origini della città etnea. Da essa è possibile dominare un panorama unico che dimostra il valore della scelta strategica di edificare sulla sua cima il primo nucleo della città

Dall’alto di una collina…

Il nucleo originale dell’attuale centro di Paternò è tutto concentrato all’interno delle fortificazioni della collina normanna e molti edifici furono voluti, a partire dal possente castello, dal conte normanno Ruggero che fece edificare il maniero nel 1073. Dell’epoca antecedente alla dominazione normanna poco o nulla rimane sulla collina, in particolare rari resti del periodo greco-romano, di tanto in tanto, riemergono da scavi non necessariamente finalizzati al loro rinvenimento. Del periodo arabo non ci sono praticamente tracce se si esclude un pozzo antistante il castello, così come non vi sono più tracce della Giudecca, l’antico quartiere ebraico abitato sino alla fine del XV secolo.

Numerosi sono, gli edifici religiosi collocati un tempo all’interno delle possenti fortificazioni che cingevano la collina, la parte più alta della quale è invece occupata dal castello. La possente struttura dell’edificio ne denuncia l’antico utilizzo di fortezza militare con cui il conte Ruggero si proponeva di porre in stato d’assedio la città di Catania. In epoca sveva il castello venne utilizzato anche come abitazione dai signori di Paternò per cui furono necessarie alcune migliorie per riadattarlo al nuovo scopo, come l’apertura delle quattro piccole bifore che illuminavano l’interno dell’edificio. Il piano terra dell’edificio racchiude numerosi vani dalle funzioni più disparate: un ampio locale all’ingresso era sede di una cisterna che conteneva l’acqua ed il frumento; attigua a questa una stanza accoglieva i prigionieri; un’altro vano dava alloggio alle guardie del castello. Sempre al piano terra si trova la splendida Cappella di San Giovanni con la volta rappresentante un cielo stellato. Nella cappella di particolare interesse la raffigurazione di un cavaliere, probabilmente San Giorgio protettore dei Normanni e ovunque i vivaci colori delle figure di santi opera quasi certamente di artisti di scuola bizantina. Risalendo per un’angusta scaletta si può accedere al piano superiore dove aveva sede la sala del Parlamento in cui i sovrani tenevano le loro riunioni. Il vano è ampio e luminosissimo per la presenza delle bifore da cui si gode un panorama straordinario e nella parete a fianco della seconda bifora si può notare un elegante bassorilievo. Sullo stesso piano i piccolissimi servizi igienici e due stanze adibite ad uffici. All’ultimo piano vi è la Sala delle Armi, un vano le cui finestre erano prive di vetrate e da cui si accede alle stanze del re e della regina. Dinnanzi alle stanze dei sovrani, i vani destinati al ricovero degli ospiti. Le due ampie bifore dell’ultimo piano svelano anch’esse una fantastica vista l’una verso la Piana di Catania, l’altra verso il paese con lo sfondo maestoso dell’Etna. Sul soffitto si può godere ancora di quel paesaggio mozzafiato che consente la posizione elevata della collinetta su cui sorge l’edificio. Un tempo la torre era provvista di merli abbattuti durante lavori di restauro avviati agli inizi del secolo. Una visita all’interno del vecchio cuore di Paternò può iniziare dalla Porta del Borgo, alla cui destra ha inizio l’imponente scalinata costruita nel XVIII e che serviva da via di comunicazione tra la collina e la zona di espansione urbana più a valle. La scalinata, ricoperta in alcuni tratti da alcune arcate, viene percorsa in discesa dai fedeli con in spalla il Cristo morto seguito dall’Addolorata, per il Venerdì Santo. Sottoposta a numerosi rimaneggiamenti, che non ne hanno però stravolto le evidenti origini normanne, è la chiesa a tre navate di S. Maria dell’Alto. Tra le modificazioni più importanti vi è senz’altro il riadattamento del XVI allo stile barocco. La facciata della chiesa è presumibilmente da far risalire al XIV secolo ad opera di Caropepe, Prevosto della Collegiata. Da far risalire al 1092, per volontà della regina Adelasia, che la volle per ringraziare la Madonna per la vittoria dei normanni sugli arabi, è la chiesa di S. Maria di Josaphat. La chiesetta è attigua ad un Monastero, di cui rimangono solo le mura perimetrali, ed è stata anch’essa oggetto di numerosi rifacimenti successivi, tra cui l’elegante portale aragonese del ‘300 sulla facciata. Ma nel complesso la struttura denuncia la sua origine normanna con le merlature all’esterno e l’interno sobrio con il soffitto ligneo a cassettoni ricostruito dopo i bombardamenti della II Guerra Mondiale. Altro pregevole edificio religioso è la chiesa cinquecentesca di Cristo al Monte. Essa presenta degli elementi barocchi derivanti da un’aggiunta di stucchi effettuata nel ‘700. Proprietaria della chiesa era la Confraternita dei Bianchi che si occupava dei condannati a morte che venivano rinchiusi nelle segrete annesse all’edificio. All’interno le pareti presentano delle pale d’altare raffiguranti episodi religiosi, mentre particolare attenzione merita l’altare con quattro colonne e quattro statue rappresentanti le quattro virtù cardinali. Più antica la chiesa di San Giorgio, edificata dalla regina Adelasia nel 1086. A struttura rettangolare presenta, a creare discontinuità sulle facciate esterne, alcune finestre con arco a sesto acuto; all’interno, con le pareti ricoperte da stucchi risalenti al ‘700, si può osservare il tetto che conserva l’antica struttura lignea pur essendo stato ricostruito di recente. Annesso alla chiesa, il Convento di San Francesco alla Collina, nel quale si conserva una cisterna di recente restauro. Di stile gotico, la chiesa S. Maria delle Grazie, la cui facciata ha due campanili e al cui interno una cripta conservava le mummie di monaci morti in odore di santità.

Attiguo alla chiesa il Monastero francescano il cui interno conserva ancora pregiate pitture settecentesche. Sorto nel sito in cui era precedentemente edificato un antico oratorio del XVI secolo, il Santuario della Consolazione, è stato consacrato nel 1954, presentando una struttura moderna ma ricca di indovinati spunti estetici tra cui la sua edificazione secondo lo schema strutturale della basilica latina a tre navate. Semplice ma elegante la chiesa di San Giacomo costruita nel XVI secolo e sede ancor oggi della confraternita omonima. La facciata, classicamente a capanna con torre campanaria, è interrotta da una nicchia contenente una statua del santo di ottima fattura.


La crescita demografica ed economica di Paternò, spinse la popolazione residente sulla collina storica ad abbandonarla progressivamente determinando quindi lo spostamento degli interessi dei signori del luogo che dovettero adeguarsi al flusso della cittadinanza verso la valle, edificando qui le proprie nuove dimore

…sino al fondo di una valle

E’ stata la necessità di trovare nuovi spazi vitali a spingere i paternesi ad abbandonare progressivamente la cima della collina storica ed a spingersi verso la valle producendo quello sviluppo del tessuto urbano che continua ancora oggi. I primi a “cambiar casa” furono i titolari delle confraternite che nel corso del XIV, XV, e XVI secolo costruirono più a valle i propri edifici religiosi attorno a cui sorsero le prime nuove abitazioni. A nulla valsero gli incentivi economici proposti dai signori del tempo perché la popolazione non abbandonasse le proprie dimore sulla collina all’interno delle fortificazioni. Alla fine il suo graduale abbandono determinò lo spostamento degli interessi economici e sociali più in basso, tanto da costringere i signori della città a stabilire qui le proprie residenze. Questo determinò che edifici storici di una certa rilevanza sorsero anche in siti diversi dalla cima della collina normanna.

Il cuore della città a valle è rappresentato da Piazza Indipendenza in fondo alla quale sorge la chiesa del Monastero edificio religioso del 1662 al cui interno sono conservate alcune pregiate opere pittoriche tra cui il Martirio di Santa Barbara (1799), il Transito di S. Benedetto (1653) e la Madonna dell’Itria, di scuola messinese del ‘500. Oltre a queste una statua lignea raffigurante Cristo alla colonna (XVII sec.).

Poco distante, imboccando via Monastero, si giunge in P.zza S. Barbara nella quale sorge la chiesa omonima la cui facciata si fa risalire al 1781. Dinnanzi a questa la chiesa del Carmine che conserva una statua gaginesca raffigurante la Madonna della Catena.

Ci si può rendere conto delle tradizioni di Paternò proprio soffermandosi un po’ più a lungo in Piazza Indipendenza e nei suoi dintorni, in quanto essa, non soltanto rappresenta il luogo di incontro naturale per i cittadini della città, ma la sua posizione centrale ci consente anche di visitare le numerose botteghe artigiane che sorgono in zona. L’artigianato locale è per Paternò elemento di traino economico e motivo di vanto per l’unicità di alcune attività che vi si svolgono con rara perizia. Centralità su tutte le attività artigianali e turistiche del paese assume il grande vulcano che lo domina. L’Etna, protagonista di eventi luttuosi è anche grande madre per

le popolazioni che hanno deciso di vivere alle sue falde sfruttando la fertilità della terra vulcanica ed estraendo dai suoi fianchi il materiale per costruire case e suppellettili di rara eleganza. E’ su questo che i maestri di un tempo hanno costruito la propria perizia utilizzando la resistentissima pietra lavica estratta dalle cave e donando a questo particolare materiale i colori della Sicilia suggeriti dal proprio estro creativo.

L’impiego dei materiali viene filtrato dalla tradizione dando vita ad impasti d’argilla frammista a polvere di pietra lavica ed ancora ai complessi processi di ceramizzazione (unici al mondo) con cui le lastre di materiale proveniente dalle cave venivano trattate.

L’artigianato acquista a Paternò una triplice valenza, culturale, artistica ed economica, contribuendo all’occupazione ed a garantire flussi di turisti che sono ben felici di portare con sé pezzi unici di un’arte antica che trova la sua forza nella tradizione tramandata per generazioni di padre in figlio.


Nel territorio di Paternò, posto a cavallo tra le verdi vallate della Piana di Catania e le fertili terre dell’Etna, la realtà contadina ha rappresentato un raro esempio di cultura popolare sviluppatasi attorno alla “masseria”; l’unità fondamentale degli insediamenti umani in un ambiente rurale

Il vivere contadino nel territorio di Paternò

Uno dei fenomeni meglio evidenti nelle zone rurali più caratteristiche della Sicilia è sicuramente il progressivo abbandono delle campagne. Non è esente da questa tendenza il territorio di Paternò che si estende a cavallo tra le verdi terre della Piana di Catania, solcate dal fiume Simeto, e le zone pedemontane dell’Etna, ricche dei benefici dei fertilissimi terreni di origine vulcanica contenenti molte sostanze essenziali per la crescita delle piante. Tutto ciò giustifica la frequentazione costante dei siti attorno la città di Paternò, da parte dei contadini che in queste campagne trovavano pascoli verdi e terreni produttivi. Purtroppo la crisi del settore agricolo ha fortemente ridimensionato le proiezioni antropiche in queste zone. Nucleo centrale di questi insediamenti rurali era un tempo la “masseria” un blocco di costruzioni rustiche comprendenti la casa padronale, le abitazioni dei coloni e quelle dei lavoranti, e spaziose stalle per il bestiame. Vi erano inoltre una serie di fabbricati che fungevano da depositi per gli attrezzi e per i prodotti delle attività agricole. La “masseria” catalizzava attorno a sè, non soltanto le attività connesse all’agricoltura, ma anche tutte quelle altre, rappresentanti un vero e proprio indotto, a queste correlate, come l’artigianato ed il commercio. 

L’attività della masseria era talmente intensa, durante gran parte dell’anno, che alcune delle più grandi tra queste strutture, si rendevano autonome anche per quanto riguardava le funzioni religiose, edificando delle piccole chiesette rurali di cui ancor oggi vi è testimonianza. L’organizzazione sociale della struttura era di tipo patriarcale con gli anziani che tramandavano ai propri figli la saggezza popolare dell’arte della lavorazione della terra e del vivere quotidiano, spesso sotto forma di illuminati proverbi, canti e filastrocche. Le condizioni di vita in campagna erano spesso condizionate dagli eventi climatici non sempre addomesticabili o perfettamente prevedibili. Ogni qualvolta condizioni sfavorevoli rendevano complessa la vita dei campi ecco saltar fuori riti magici, religiosi e superstizioni mai del tutto sopite. Ad esempio se un temporale con lampi e tuoni rischiava di danneggiare il raccolto, i contadini si riunivano in preghiera per invocare Santa Barbara affinché questa si riunisse all’Angelo per recitare l’Ave Maria e scongiurare il pericolo per i campi. Dicevano gli abitanti della masseria:

Santa Barbara era fora si scantava di lampi e trona, l’Angileddu ci dicia: “Ripitemu l ‘Avi Maria “.

Altre volte in presenza di una siccità prolungata i contadini paternesi usavano recitare questa formula:

Signuruzzu chiuviti chiuviti!
li siminateddi su’ morti di siti
e si Vui nun chiuviti
nui ristamu morti di fami e di siti

Oh Signore fa’ che piova!
i seminati sono aridi e assetati
e se Voi non mandate la pioggia
noi resteremo senza pane e senza acqua

(AA-VV, Paternò e la sua civiltà contadina. edito dal Comune di Paternò nel 1996).

Riscoprire le antiche tradizioni del vivere contadino è un’esperienza imperdibile che consente nello stesso tempo di gettare un ponte col passato conservando la memoria storica delle nostre origini e di costruire, sulla base di esperienze fondamentali, le condizioni per un miglioramento delle condizioni di vita generali ripensando gli spazi sociali più a misura d’uomo.

Giovanni Carbone
http://lalentezza.altervista.org/

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